In cerca di gioielli italiani

È uno dei più conosciuti ed esperti gestori che operano da anni sul mercato italiano. Alberto Chiandetti, portfolio manager presso Fidelity International e gestore del fondo Fidelity Italy, parla con interesse e competenza delle opportunità che può offrire Piazza Affari.

Perché è interessante il mercato azionario italiano?

«Penso che la bellezza del mercato italiano sia creata soprattutto da quelle aziende che sono riuscite a esprimersi e ad assumere una leadership all’interno dei settori di riferimento, conquistandosi un ruolo sul palcoscenico internazionale. È indubbio che il tessuto economico del Paese presenta diverse criticità, con potenzialità di crescita che, per una serie di fattori storici e strutturali, sono limitate. Tuttavia, ciò non ha impedito alle eccellenze di emergere. Si tratta di società che, per le modeste dimensioni del mercato italiano, hanno dovuto guardare all’estero e hanno saputo cogliere diverse opportunità: sono le cosiddette “multinazionali tascabili”, cioè leader mondiali di nicchia. Poi, a seconda del momento, Piazza Affari offre anche occasioni di investimento legate perlopiù a fasi cicliche, che si ripropongono quando l’Italia cade nel dimenticatoio, nell’assoluta assenza degli investitori stranieri. Ciò, solitamente, avviene quando emergono i timori legati all’elevato livello del debito pubblico italiano e all’andamento dello spread: il mercato corregge e si creano occasioni di acquisto perché vengono raggiunti livelli di sottovalutazione conclamata relativa. Negli ultimi anni ci sono stati due momenti in cui tali situazioni si sono verificate e il mercato è stato colpito da un’indiscriminata ondata di vendite: il 2013 e il 2016».

Qual è la situazione attuale?

«Oggi siamo in una situazione in cui, soprattutto nell’ultimo anno, si è visto un mercato più attento nell’identificare le aziende con un profilo internazionale, ma le loro valutazioni sono salite tanto da non essere più a sconto rispetto alle omologhe europee. C’è stata persino una buona tenuta delle piccole e medie capitalizzazioni, che avevano attratto forti flussi domestici con il lancio dei Pir negli anni 2017-2018: per queste imprese essere italiane non ha pesato negativamente e non si è assistito ad alcun derating. Continuano a soffrire, invece, i settori come quello finanziario e le società legate al mercato domestico, con leva elevata, ritorno sul capitale basso e scarsa qualità del business model, appartenenti al comparto delle telecomunicazioni o a quello della difesa. C’è un solo titolo bancario che tratta allo stesso livello dei concorrenti europei ed è Banca Intesa: è stata capace di costruire un modello di impresa meno volatile, con una percentuale delle commissioni sul fatturato alta e negli ultimi 10 anni non ha mai deluso nei risultati. Inoltre, Banca Intesa ha sempre prestato molta attenzione alla preservazione del capitale, con core tier 1 elevato (indicatore di solidità patrimoniale) e qualità del credito superiore alla media.  Oggi è l’unica banca che tratta a premio rispetto al settore creditizio europeo».

Non c’è quindi uno sconto Italia?

«C’è in generale per i titoli finanziari domestici esclusa Intesa, come nel caso di Unicredit o di istituti di secondo livello, come le piccole banche popolari. Il maggiore sconto oggi lo vedo proprio su Unicredit. Quest’ultima soffre principalmente per le incertezze legate alla strategia di M&A, mentre il mercato non sta dando credito alla forte ristrutturazione del capitale e al miglioramento prospettico della redditività messa in atto negli ultimi anni. La stessa situazione la si trova nelle utility, dove c’è una dicotomia tra gli asset considerati green, legati alla crescita delle rinnovabili (in questo gruppo c’è Enel che è uno dei principali investitori nelle rinnovabili al mondo e genera utili ed Ebitda) e le municipalizzate, che trattano a multipli storicamente molto contenuti. Sono azioni che sino a un anno e mezzo fa erano nei portafogli degli investitori stranieri; sono state vendute per le preoccupazioni legate agli impatti del rallentamento dell’economia domestica dovuti al Covid e per le ricadute sul circolante. Penso che in questo segmento di mercato si possano aprire alcune opportunità, perché sono imprese con un modello di business sostenibile e possono trarre benefici dal Recovery Fund in termini di sviluppo della digitalizzazione, dagli investimenti nei rifiuti e dall’economia circolare. Nel portafoglio del fondo Fidelity Italia sono detenute sia A2A, sia Iren, due aziende con una valutazione contenuta, che potrebbero trarre vantaggi dagli investimenti legati al Recovery Plan, oltre a essere sensibili alla ripresa del ciclo perché sono tra le più esposte alla generazione elettrica».

Lei ha parlato di fasi in cui il mercato italiano è oggetto di forte volatilità legata alla situazione del debito pubblico. Questo approccio continuerà a essere presente nei confronti di Piazza Affari?

«Vista la dimensione del debito pubblico, l’Italia è sempre suscettibile a piccoli cambiamenti di percezione da parte degli investitori stranieri, che al margine sono importanti e che possono aumentare la volatilità sul mercato. Ciononostante, è la prima volta, in un arco di 12 anni, che una crisi di entità peggiore rispetto a quella del 2009 ha fatto scendere in soli 12 mesi il premio al rischio per l’Italia a livelli storicamente bassissimi. Che cosa è accaduto nell’ultimo anno? L’Europa si è mossa, forse ancora troppo lentamente rispetto ai desiderata e in modo incerto, ma agli inizi dello scorso anno non si sarebbe mai immaginata l’approvazione di un piano di Recovery così consistente, di cui una parte è a fondo perduto, finanziato dalla fiscalità generale europea.  Ed è forse proprio la gravità del contesto che spiega la formidabile reazione del Vecchio continente, che riesce a compattarsi e a dare risposte ogni qualvolta è di fronte a grandi difficoltà: quando scoppia una crisi, l’Europa diventa più Europa. In questa situazione, l’Italia, che aveva lottato caparbiamente per ottenere i 209 miliardi del Recovery Plan, non si è poi mostrata subito pronta a preparare un piano per la gestione delle risorse dell’Unione, mostrando più di un tentennamento e palesando un’assenza di governance».

Ma la crisi politica che ne è seguita ha poi portato Mario Draghi a Palazzo Chigi…

«Il precipitare della situazione ha trovato una risposta che solitamente caratterizza i momenti di difficoltà dell’Italia, ovvero la scelta di demandare a una figura esterna al mondo politico, con elevate competenze tecniche, il governo del Paese. La decisione, da parte del Presidente della Repubblica, di dare il mandato a Mario Draghi per affrontare le emergenze sanitaria, sociale, economica e finanziaria, trova ragione anche nell’esigenza di presentare alla Commissione europea entro aprile un progetto per spendere i soldi del piano europeo. Sono risorse importanti che, se ben allocate, saranno un volano di crescita fondamentale, perché il percorso di rientro dal debito pubblico sia credibile. Per mutuare le parole del Presidente, non possiamo permetterci di mancare questa occasione fondamentale per il nostro futuro». 

Un onere non da poco per un governo tecnico

«L’esperienza insegna che, quando si parla di governo tecnico in Italia, la durata è abbastanza limitata: circa un anno, durante il quale è impensabile portare a termine tutte le riforme di cui il nostro Paese avrebbe bisogno. Ciononostante, è un tempo sufficiente perché l’attuale esecutivo possa giocare due carte fondamentali: la gestione del Recovery Plan e la sua governance. Ma è necessario anche un passo successivo, ovvero assicurare che l’Italia abbia veramente abbracciato l’europeismo e l’europeità, come ha fatto il presidente Mattarella, offrendo così una garanzia di continuità. Da questo punto di vista, Mario Draghi potrebbe essere il candidato ideale: un uomo che, quando era a capo della Bce, ha saputo creare un modus operandi che gli ha permesso di delineare un percorso attorno al quale generare consenso per raggiungere gli obiettivi prefissati. Se Draghi dovesse diventare il nuovo Presidente della Repubblica, ci potrebbero attendere sette anni di presidenza capace di rassicurare il mercato e, contestualmente, offrire all’Italia l’opportunità di un’espansione fiscale con grandi benefici per l’economia domestica». 

Quali sarebbero le ricadute sul mercato azionario?

«Vorrebbe dire guardare con molta attenzione ai titoli domestici, che sono direttamente legati ai temi del Recovery Plan, sperando che si inneschi un ciclo virtuoso tale da produrre forze positive per tutto il tessuto, economico e non, del Paese. In questo contesto, le banche, bistrattate dal mercato, ritornerebbero a essere interessanti, perché una ripresa economica diminuirebbe l’incidenza sugli impieghi dei crediti deteriorati, con un impatto positivo per gli utili. Un’altra opportunità potrebbe essere offerta dai titoli legati ai consumi, la cui presenza sul mercato rimane però limitata e in società di piccola e media capitalizzazione».

Come struttura il suo processo di investimento?

«Quando mi viene posta questa domanda, esordisco sempre con un incipit che fa riferimento a che cosa spiega l’andamento di un titolo o di un indice in borsa. Se si considera un arco di tempo breve, è difficile identificare dei parametri, perché la volatilità ha un ruolo importante. Tuttavia, se si analizzano grafici di lungo periodo, 10 anni almeno, si vede che alcuni indicatori economici, ad esempio gli utili aziendali, l’Ebitda e il free cash flow, sono correlati agli indici di borsa e ai prezzi dei titoli. Come si coniuga un arco di 10 anni con la necessità di gestire gli investimenti anche nel durante? Il portafoglio del fondo Fidelity Italia è strutturato con circa il 60% investito in aziende i cui indicatori mostrano un trend di crescita e il rimanente 40% in titoli che sono sensibili al cambiamento del ciclo, in storie di ristrutturazione o dove si mette in discussione il consenso che si è creato attorno a un titolo. Queste percentuali sono suscettibili di cambiamento in base alle condizioni economiche e di mercato».

Qual è il suo stile di investimento?

«Le scelte di investimento avvengono privilegiando molto i fondamentali, secondo un approccio bottom-up, ovvero concentrandosi sulle caratteristiche specifiche di ogni singolo titolo. L’analisi prettamente finanziaria è poi integrata con quella dei criteri Esg, con la finalità ultima di determinare l’andamento degli utili, valutare se i multipli cui il titolo deve trattare sul mercato sono congrui e stimare quale ritorno ci si attende. L’approccio di Fidelity è basato sulla gestione attiva, dove la ricerca è alla base di tutto. Io sono entrato nell’azienda come analista e questa è un’impronta che mi caratterizza anche nel ruolo di gestore. Nel mio lavoro mi avvalgo della collaborazione degli analisti interni, soprattutto per quanto riguarda i titoli a grande e media capitalizzazione, con cui mi confronto e collaboro, ma la decisione finale spetta al sottoscritto. Contestualmente, do il mio apporto alla ricerca grazie al contatto diretto che ho con il mercato e ai rapporti con le aziende costruiti in vent’anni di lavoro. Per quanto riguarda i titoli a più bassa capitalizzazione, faccio un’attività di screening alla ricerca di società ancora sconosciute, ne approfondisco l’analisi coinvolgendo a volte anche gli analisti. Talora diventano idee di investimento anche per altri fondi dell’universo Fidelity». 

Come sono integrati i criteri Esg nelle politiche di portafoglio?

«L’azienda ha dato un grande impulso all’integrazione di questi criteri nelle politiche di investimento. Nel 2019 sono stati lanciati i rating Esg interni da parte degli analisti: è un processo che sta evolvendo con modalità ancora più strutturate e che vedrà un’ulteriore scomposizione dell’analisi specifica per ciascuna delle componenti dell’acronimo. Inoltre, storicamente, Fidelity International ha sempre posto enfasi sull’attività di engagement, la cui importanza si è allargata dalla governance a tutte le altre tematiche».

Quali sono i “gioielli” del mercato italiano?

«Con questo termine io identifico le aziende con un buon ritorno sul capitale, più alto del settore cui appartengono, che hanno quindi capacità competitiva, prodotti e servizi migliori e sono gestite in modo oculato. Avere un ritorno sul capitale elevato significa avere più soldi o da investire o per remunerare l’azionista. Il vero problema è che, in un contesto di tassi come quello attuale, le imprese in crescita e di alta qualità hanno avuto un forte rerating, raggiungendo valutazioni elevate: quindi non è detto che i gioielli, nel senso dei migliori business model, saranno anche le migliori opportunità di investimento da qui a tre anni. Oggi c’è una situazione per cui, più i tassi scendono in territorio negativo, maggiore è il rischio di tenere in portafoglio società che hanno conseguito risultati importanti: quando parliamo di multipli sull’Ebitda vicini o superiori a 20x  e P/E di 35-40x, mi chiedo quanto della futura crescita sia effettivamente già scontato nei prezzi e non posso fare a meno di pensare che ci sia un rischio di ribasso. È per questo motivo che nell’ultimo periodo ho aumentato l’esposizione del portafoglio ai temi ciclici».

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Responsabile Clienti Istituzionali Fondi&Sicav

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