Quasi tre secoli al servizio della musica
«Dal 1750 al servizio della musica» è il motto che «rappresenta lo spirito con il quale otto generazioni si sono succedute nel tempo per tramandare l’impegno a sviluppare l’attività di impresa, coniugando tradizione e innovazione, con l’obiettivo di promuovere e valorizzare il ruolo della musica come forma di educazione dei giovani e di prevenzione e recupero del disagio sociale». Così è riportato sulla prima pagina del sito di Monzino Spa. Antonio Monzino, attualmente presidente dell’azienda, racconta la storia di oltre 270 anni di una famiglia di liutai che ha portato lustro a Milano e all’Italia.
Monzino è il nome di una famiglia che nasce da un liutaio, che ha dato il nome a un’impresa con oltre due secoli di storia alle spalle. Nell’albero genealogico, lei è il settimo erede della famiglia e con una grande responsabilità sulle spalle.
«Sin dalla tenera infanzia, il mio Dna è sempre stato impregnato degli strumenti musicali, grazie anche a una lunga tradizione che risale al 1767, anno in cui Antonio Monzino I iniziò l’attività come “fabbricatore di instrumenti e corde armoniche”. Il mio primo approccio con il mondo degli strumenti musicali è avvenuto quando ero ancora piccolo. All’età di 10 anni mio padre mi portava con sé a comperare legname in Trentino, piuttosto che a incontrare liutai a Cremona. Più in là negli anni, quando frequentavo le scuole superiori, venivo mandato d’estate presso alcuni fornitori in Inghilterra, dove realizzavano batterie, e in Germania, dove producevano corde armoniche. Mio padre mi ha fatto crescere nello spirito della musica e dello strumento musicale. Ma anche le esperienze all’estero hanno avuto il loro peso, in particolare quella inglese, dalla quale ho ricevuto un messaggio importante che non mi ha mai abbandonato nella vita: la musica e lo strumento musicale sono importanti nella formazione culturale della persona e una buona pratica per una lunga e sana vita di qualità».
Qual è stata l’evoluzione dell’impresa di famiglia?
«L’impresa è passata attraverso sette generazioni e alla guida c’è sempre stato un membro della famiglia con il nome di Antonio. Io sono il settimo in ordine di discendenza, l’ultimo che porta questo nome, cui è già subentrata l’ottava generazione. Al fondatore, succedette il figlio Giacomo Antonio Monzino II (1776-1854) che integrò l’iniziale attività artigianale con il commercio di corde, accessori e strumenti antichi. Antonio Monzino III (1800-1872) consolidò l’attività in anni in cui la famiglia visse da protagonista gli avvenimenti delle Cinque giornate di Milano. Antonio Giacomo Monzino IV (1847-1929) introdusse le moderne macchine operatrici per la lavorazione del legno e la fabbricazione delle corde armoniche fasciate, continuando nella tradizione della liuteria con i migliori artisti italiani dell’epoca. Costituì, inoltre, il “Circolo dei Mandolinisti” e avviò con successo l’attività nel settore editoriale. Antonio Monzino V (1885-1918) collaborò fattivamente all’impresa familiare ma, purtroppo morì giovanissimo, a soli 32 anni, per una malattia contratta in guerra, e l’impresa di famiglia fu gestita per un periodo da uno zio, Carlo Garlandini. Alla fine della seconda guerra mondiale, mio padre, Antonio Carlo Monzino VI, prese in mano le redini dell’azienda, dopo essere rientrato dal servizio militare. Papà aveva fatto studi di liuteria e ciò gli permise di creare un laboratorio che produceva chitarre e mandolini, al lato del negozio di vendita al pubblico di Via Larga. Lì iniziai a muovere i primi passi in azienda, collaborando all’avvio dell’attività di importazione e distribuzione sul mercato italiano di importanti marchi internazionali di strumenti musicali. Nel 1972 mio padre decise poi di costituire la Monzino Spa, conferire parti uguali dell’azienda ai suoi cinque figli e nominarmi amministratore delegato».
Come avvenne il passaggio generazionale che la mise a capo dell’azienda?
«Fu mio padre a deciderlo, perché, dopo gli anni al suo fianco a volte con qualche burrasca, aveva identificato in me le caratteristiche che riteneva fossero necessarie per condurre l’attività imprenditoriale. Entrai in azienda con altri miei due fratelli, Carla e Alberto. Così facendo, mio padre decise di cambiare il solco segnato dalle generazioni precedenti, in cui il filo conduttore è stato la consapevolezza che la gestione dovesse essere lasciata nelle mani di uno solo e che bisognasse identificare il continuatore dell’impresa di famiglia; lui assegnò sì a me la gestione, ma la proprietà ai cinque figli. Quando ereditai il ruolo in azienda, l’attività era molto cambiata, tanto che eravamo diventati sempre più una società orientata all’importazione e alla distribuzione. Furono anni in cui il mercato cambiò profondamente con l’arrivo dei fabbricanti di strumenti musicali sul mercato europeo e internazionale. La nostra capacità fu di leggere in anticipo questa evoluzione e creare con questi ultimi alcune joint-venture, che ci permisero di crescere, negli anni, in modo continuativo e con l’orgoglio di non avere mai dovuto licenziare nessuno. Furono anni molto positivi, che portarono alla creazione di una holding con una serie di società controllate e partecipate, tra cui Mogar, una crasi dei due cognomi di famiglia Monzino e Garlandini, Yamaha Musica Italia, Roland Italy, Gbson Med, Gewa Med e una storica casa editrice musicale, la Carisch, acquistata per riprendere l’attività editoriale».
Ma quella di suo padre fu una scelta condivisa?
«La nostra famiglia aveva alcuni valori comuni, che hanno permesso di non arrivare a contrasti a livello personale. Nella gestione dell’attività, invece, alcune frizioni ci sono state, come penso sia fisiologico avvenga, soprattutto quando si è trattato di prendere decisioni aziendali e affrontare una situazione che, dalla seconda metà degli anni 2000, ha cominciato a registrare diverse difficoltà. L’evoluzione del mercato, l’abbattimento delle frontiere doganali e l’arrivo dell’euro furono fattori che resero più complesso il nostro lavoro di distributori, con i margini di profitto sempre più esigui e i problemi a rimanere competitivi. Allora furono prese decisioni che non si rivelarono di successo e portarono a una riorganizzazione aziendale, con l’uscita di un ramo, e, gradualmente, a una modifica della struttura societaria che è ancora in via di finalizzazione».
Tornando alla decisione di suo padre, lei come visse l’assunzione di un ruolo di così grande responsabilità?
«Con una gran voglia di fare, imparare e tenermi aggiornato. Vede, per una serie di casi fortuiti, non completai gli studi superiori e questo fatto fu per me fonte di rammarico, perché non mi faceva sentire adeguato. Per questa ragione, quando fui messo a capo dell’azienda, mi impegnai al massimo per colmare le mie lacune e imparare anche le tecnicalità per affrontare le situazioni che io vivevo nella quotidianità, ma rispetto alle quali non avevo gli strumenti adeguati per saperle interpretare. Decisi così, forte della voglia di imparare, di avvalermi di un consulente esterno che ogni sabato veniva in azienda a tenere corsi di marketing e strategia aziendale a me e ai miei fratelli. Ho lavorato molto e dedicato me stesso all’impresa, senza risparmiarmi; forse è stato grazie a questo mio impegno che sono riuscito a ricoprire quel ruolo che, tra cinque fratelli, era stato affidato a me. Proprio per lo spirito che mi ha animato, ho sempre pensato che non si debba lasciare spazio all’improvvisazione e che la formazione sia fondamentale, così come lo è delineare un percorso, stendere un progetto e organizzare un processo. È stata questa consapevolezza che, negli anni, mi ha portato a chiedere di scrivere un patto di famiglia, per identificare l’assegnazione di una serie di attività ai soggetti idonei ad assicurare la continuità gestionale dell’impresa. Con gli anni difficili, però, il patto e gli sforzi per gestire il passaggio generazionale in modalità condivisa non hanno purtroppo prodotto i risultati sperati».
È stato il credere che la musica sia una componente essenziale per la crescita culturale che avete costituito la Fondazione Antonio Carlo Monzino nel 1999?
«È lo spirito che anima la nascita della Fondazione ed è lo strumento attraverso il quale è stato possibile fare un’operazione di restituzione alla collettività. Ci siamo infatti posti il problema di come, alla morte di nostro padre, noi cinque fratelli avremmo gestito la collezione di strumenti antichi in eredità. Si trattava di molti strumenti musicali costruiti dalla fine del ‘600 al 1930, che erano appartenuti in parte alle precedenti generazioni dei Monzino, in parte erano stati acquistati da mio padre. La volontà di dare una continuità alla collezione e di non disperdere un patrimonio così importante, ci ha portati alla decisione di donarne una parte al Museo Civico di Strumenti Musicali del Castello Sforzesco di Milano, per dare a tutti, e specialmente alle giovani generazioni, l’opportunità di ammirare ciò che l’ingegno umano può costruire. Si è trattato di un’operazione di restituzione cui io ho personalmente tenuto molto, perché ritengo che sia importante che ciò che noi, come famiglia, abbiamo ricevuto negli anni dalla comunità alla stessa sia reso. Il fatto di fare tornare alla comunità ciò che si è ricevuto è per me un valore che ho condiviso con i miei fratelli, presenti anch’essi nel consiglio direttivo della Fondazione».
Quali sono gli obiettivi della Fondazione?
«La Fondazione ha tre obiettivi. Il primo, secondo l’articolo 2 dello statuto, “ha lo scopo di promuovere l’alfabetizzazione e la pratica musicale, in particolare nell’educazione dei giovani, quale importante componente formativa e culturale della persona con ricadute di grande rilievo sociale per l’intero percorso della vita, a titolo esemplificativo quale antidoto e recupero al disagio sociale, prevenzione al bullismo e all’abbandono scolastico”. In questa direzione, abbiamo partecipato a un progetto per bambini, che vengono coinvolti sin dalla tenera età, chiamato “Nati per la musica” in collaborazione con l’Associazione Culturale Pediatri: lo scopo è seguire la salute dei più piccoli dal punto di vista dello sviluppo cognitivo in riferimento al rapporto con la musica. Io credo che la musica abbia un ruolo sociale che deve essere rivalutato, anche nel nostro Paese. Il secondo è la conservazione e la manutenzione degli strumenti musicali tramandatici dalle generazioni precedenti e, infine, c’è la promozione della ricerca scientifica in materia di musica e cervello, che, in tutto il mondo, sta riscoprendo elementi che dovrebbero essere già patrimonio comune. Ossia che la musica è fondamentale nella formazione culturale della persona, sia per gli aspetti che oggi vengono rilevati in ambito neurologico e neuroscientifico, sia per quelli comportamentali. Ad esempio l’orchestra è il modello organizzativo che viene utilizzato molte volte anche nelle consulenze aziendali».
Dalla conservazione e manutenzione degli strumenti musicali nascono altre iniziative?
«Sì, come “Mani sapienti”, un progetto è nato con l’Expo presso il Castello Sforzesco nelle sale panoramiche e che si è prolungato poi per un altro anno: è stata creata un’installazione a forma di violino dove i visitatori potevano osservare il lavoro dei mastri liutai nella realizzazione degli strumenti e assistere a momenti musicali di emergenti e affermati musicisti. Che cosa si indica con “Mani sapienti”? Da un lato quelle del liutaio che realizza lo strumento, prevalentemente a corda, dall’altro quelle del musicista che lo suona. Il progetto si è poi rinnovato con nuovi laboratori interattivi, divertenti e inclusivi presso le scuole primarie e secondarie del territorio, al centro culturale Rosetum e in altri prestigiosi contesti. “Adotta uno Strumento”, invece, è un’iniziativa partita nel 2009 in collaborazione con i cameristi della Scala e ha visto selezionare giovani musicisti dotati nel rispetto del loro talento, cui è stato affidato in comodato d’uso gratuito uno strumento antico di alta liuteria della collezione Monzino. La finalità è fare rivivere lo strumento e ridargli voce, garantire una crescita culturale e professionale continua ai giovani artisti mettendo a loro disposizione uno strumento in prestito. Poi abbiamo anche “Musica in carcere”, un altro progetto sviluppato in collaborazione con la casa di reclusione di Bollate nel 2010: è stata allestita la sala musica nel quarto reparto maschile, tramite la donazione degli strumenti musicali necessari. Dal 2011 la Fondazione organizza corsi di pianoforte per i detenuti e le assicuro che abbiamo avuto testimonianze commoventi di come queste esperienze abbiano toccato le corde emotive più profonde dei detenuti, aiutandoli a riprendersi un pezzo della loro vita. Ma ci tengo precisare che, anche prima della nascita della Fondazione, la famiglia ha sempre organizzato attività con simile finalità attraverso, ad esempio, la onlus “De Musica”, da noi fondata».
Le iniziative che ha elencato sono cariche di una valenza sia cognitiva, sia emozionale, particolarmente ricca.
«Sono attività che ci regalano tante soddisfazioni e che ci permettono di essere molto presenti sul territorio. Io le promuovo anche attraverso Dismamusica, associazione di categoria che rappresenta importatori e produttori di strumenti musicali, artigiani, editori e negozianti, che ho contribuito a fare nascere in Confcommercio con altri operatori nel 1982 e di cui sono attualmente presidente onorario. Negli anni ha lavorato costantemente, oltre che per affrontare i temi di carattere sindacale, anche per fare crescere i valori di cui ci facciamo portatori attraverso la nostra Fondazione: la cultura della pratica musicale, dando grandissima importanza alla parte sociale ed educativa».
Anche queste sono iniziative di restituzione
«Lo sono e le intraprendo perché le sento mie, le sento nel profondo, perché rispecchiano i valori in cui credo. Ho fatto l’imprenditore per successione dinastica, affrontando diverse situazioni, pronto a gettare il cuore oltre l’ostacolo, ma ho sempre agito con un grande rispetto nei confronti delle parti sociali con cui mi sono interfacciato. Ancora oggi sento l’impegno e la responsabilità di lavorare per creare le condizioni che consentano, a chi verrà dopo di me, di garantire la continuità alla lunga storia della nostra impresa familiare».