Imprese italiane, un passaggio generazionale non sempre facile

Le piccole e medie imprese ricoprono un ruolo importante nel tessuto economico dell’Italia, visto che rappresentano circa il 92% di quelle attive e impiegano l’80% della forza lavoro. Nei prossimi 20 anni, nel nostro Paese, la gestione delle aziende conoscerà un importante cambiamento, con il passaggio di mano dalla generazione dei baby boomer (i nati tra il 1946 e il 1964) a quella dei millennial di circa 800 miliardi di ricchezza mobiliare, immobiliare o aziendale. Ciò è quanto afferma Nicola Ronchetti, fondatore e ceo di Finer Finance explorer, istituto di ricerca in ambito finanziario.

Il problema del passaggio generazionale è molto delicato, soprattutto per un paese come l’Italia, dove si registra un ritardo in questo ambito. Qual è la sua opinione?

«Abbiamo fatto una serie di ricerche e analisi sul tema e ciò che colpisce è che il passaggio generazionale, cui è legato anche un processo di ottimizzazione fiscale, ha ampi spazi di miglioramento nel nostro Paese. Si tenga conto che, a oggi, solo il 17% delle persone (calcolato sulla popolazione italiana adulta) ha affrontato questo aspetto. Il dato si confronta con una media europea del 34%, americana del 42% e britannica del 50% e palesa un chiaro ritardo che mostra, nei fatti, che il passaggio generazionale in Italia non è adeguatamente affrontato. La spiegazione di ciò è data da due fattori: solo un investitore su quattro è attivo sui mercati finanziari (il calcolo è stato fatto su coloro che hanno sul conto corrente una cifra superiore a 50 mila euro) e manca la copertura assicurativa. Nello specifico, su questo secondo aspetto, vale la pena ricordare che solo un italiano su quattro assicura la casa, la vera ricchezza degli italiani, mentre è del 15% la percentuale di coloro che sono coperti da infortuni. In sintesi, siamo di fronte a una presenza di eccessiva liquidità e inadeguata copertura dei rischi». 

Peraltro, i dati sulla liquidità sui conti correnti continuano a registrare incrementi…

«È corretto e ciò che colpisce ulteriormente è che il 77% delle persone con giacenze di liquidità sui conti superiore a 200 mila euro in media non sente il proprio gestore bancario da 12 mesi. Emergono quindi due riflessioni: c’è un’educazione finanziaria ancora non sufficientemente avanzata e un’offerta assicurativo-finanziaria che è silente».  

Una situazione generale che, sempre in tema di passaggio generazionale, non si caratterizza per la sua dinamicità.

«Concordo. Se poi ci si focalizza sui clienti private, che rappresentano la fascia più abbiente della popolazione italiana con consistenze patrimoniali sopra il milione di euro, si rileva che il 45% non ha ancora risolto o affrontato il tema del passaggio generazionale. Se si considera che l’economia italiana si regge sulle Pmi (50-200 addetti), con il Pnrr che convoglierà i propri investimenti su questo tessuto economico, è abbastanza intuitivo capire che non affrontare il tema significa incorrere nel rischio di discontinuità nella gestione dell’azienda, allocare e impiegare le risorse in modo inadeguato, con ricadute pesanti per il mercato del lavoro. In un’ottica di interesse nazionale, poco importa che l’imprenditore non si prenda cura del proprio futuro se le ricadute dovessero essere solo sui suoi eredi. Di fatto, però, non è così, perché la dispersione di un patrimonio, quando una delle componenti è un’attività produttiva, distrugge ricchezza e incide sul contesto economico e sociale. E, poi, c’è un problema di invecchiamento di coloro che guidano le aziende. L’età media degli imprenditori italiani è in crescita e, negli ultimi 10 anni, secondo i dati di Unioncamere e Istat, coloro che hanno 70 anni e oltre sono aumentati del 2%, mentre sono diminuiti del 5% coloro che ne hanno meno di 40. Siamo quindi di fronte a un quadro che genera forti preoccupazioni: una classe imprenditoriale in progressivo invecchiamento e che non si occupa di pianificare il futuro della propria impresa con il trasferimento delle competenze. Il rischio immediato è, da un lato, un impoverimento del tessuto produttivo con la progressiva scomparsa di attività presenti sul mercato, dall’altro, di avere persone con una disponibilità finanziaria che non viene gestita in modo efficiente ed efficace».

Pensando al futuro, ha disegnato un quadro che non rasserena

«Sì, ma dipende dallo spirito con cui lo si guarda e ci sono due possibilità. La prima, la più pessimista, è che la fotografia della situazione attuale è molto preoccupante, mentre la seconda, più ottimista, intravede una grande possibilità di miglioramento. Io sono incline a guardare il bicchiere mezzo pieno e a cogliere le potenzialità che la situazione attuale offre, soprattutto per i soggetti che sono chiamati a dare un loro contributo diretto affinché si esca da questa condizione di stallo: gli operatori finanziari. Non è forse un caso che, in Italia, si registri una sempre più consistenze presenza di realtà finanziarie straniere, nascano nuove aggregazioni e si parli, in modo sempre più diffuso, di banca-assicurazione. Oggi, i tre pilastri della relazione con il cliente, ovvero protezione, gestione del risparmio e credito, fanno capo a un unico referente: la banca. Si apre quindi uno spazio d’azione strategicamente significativo per quegli istituti che vogliono affrontare una sfida di un mercato sicuramente non facile, ma che, con i giusti accorgimenti, offre immense opportunità da cogliere».

Ma come si trasforma una situazione di criticità in una di opportunità?

«Torniamo al 77% delle persone più abbienti che non viene abitualmente contattato dal gestore bancario. Come si può spiegare questo vuoto operativo? Non certo con la scarsa inclinazione lavorativa degli addetti: sarebbe una banalizzazione dirlo. Infatti, un’analisi attenta della situazione rivela che, all’interno delle banche, è sempre più necessario un processo di digitalizzazione delle procedure che permetta una gestione più attenta ed efficace del rapporto con il cliente, che consenta, quindi, di superare diversi scogli, che le operazioni sinora condotte manualmente hanno creato. La digitalizzazione è un po’ come la cavalleria, che arriva a salvare l’organizzazione del lavoro e permette una gestione delle migliaia di clienti di un istituto di credito con i quali risulta difficile avere una relazione continuativa e attenta ai loro bisogni».

In altre parole, la filiale fisica diventa una filiale digitale

«Sì, ormai le banche si stanno muovendo in questa direzione e la tecnologia a disposizione per farlo esiste. Inoltre, tutto ciò permette una razionalizzazione delle attività, dando il tempo e lo spazio dovuto a quelle che richiedono un approccio dedicato».

Quali sono le ricadute del contesto che ha descritto sul mondo del private banking?

«Apre un’enorme occasione. Cito un esempio, per essere il più possibile concreto. Tra i clienti che sono molto patrimonializzati, il 37% non risulta coperto dal punto di vista assicurativo. Ora, esiste un prodotto chiamato ‘Key man people’, offerto da tutte le compagnie, che riguarda le figure apicali all’interno delle aziende in caso di premorienza o di incapacità lavorativa. È una polizza che mette in qualche modo al riparo l’impresa e/o le persone direttamente interessate da qualsiasi contraccolpo che potrebbe essere causato dall’improvvisa incapacità di una figura chiave di svolgere il proprio ruolo. Si tratta di un investimento che va a mitigare un rischio che potrebbe mettere in crisi la gestione della società, anziché lasciare liquidità sul conto da utilizzare in caso di necessità, e che meriterebbe di essere preso in considerazione in modo più diffuso. Credo che il tema dell’assicurazione e quello della gestione della ricchezza siano oggi assolutamente interconnessi».

In Italia soffriamo di una scarsa educazione finanziaria. Pensa che sia un problema culturale ed educativo o ritiene che ci siano impedimenti strutturali o di sistema?

«In Italia ci sono diverse iniziative che sono state intraprese per accrescere la conoscenza finanziaria: una su tutte è quella del comitato sull’educazione finanziaria (Edufin). Sono molto importanti, stanno lavorando nella giusta direzione, ma è impossibile pensare che generino risultati nel breve periodo. C’è anche un aspetto culturale, legato alla storia degli italiani: dall’impero romano in poi, hanno visto nascere un’avversione verso ciò che è sistemico ed è percepito come imposto dall’alto. Questo è anche il motivo per cui abbiamo una forte presenza di microimprese sul nostro territorio. Il vero tema, però, è l’offerta che viene dal settore finanziario, assicurazioni e banche, che spiega per il 60% la situazione italiana che ho sinora descritto. C’è infatti un problema di scarsa proattività e di fiducia. La mancanza di proattività è ascrivibile a modelli di business che hanno dimostrato, al giorno d’oggi, o di non essere profittevoli o di non esserlo in misura tale da sostenere la ragione di vita del modello stesso. Spesso l’offerta ha risposto a una necessità immediata od obbligata, reagendo in forma passiva e senza offrire valore aggiunto. E poi c’è la questione della fiducia. Perché gli italiani tengono i soldi sul conto corrente e non si assicurano o investono? Innanzitutto perché non sono convinti che la gestione del proprio risparmio possa offrire loro rendimenti e vedono solo l’aspetto dei costi, di cui sono certi. Ma, nel nostro Paese, abbiamo esempi tangibili, ad esempio nel mondo della consulenza finanziaria, che mostrano esattamente che, grazie a un rapporto fiduciario, è possibile trovare soluzioni di investimento che incontrano le esigenze dei clienti in termini di ritorni sul capitale investito. Per costruire la fiducia è necessario tempo ed esempi da offrire che possano alimentarla».

Bisogna creare fiducia ed essere proattivi?

«La realtà ci dice ciò. La figura del consulente finanziario è cresciuta negli anni, proprio perché mossa dalla necessità di creare occasioni di business quotidianamente, e abbiamo visto che questo impegno si è tradotto nella crescita del risparmio gestito. Alcune banche e assicurazioni hanno raggiunto risultati migliori di altre grazie a un brand forte e all’avere adottato un approccio proattivo nei confronti della propria clientela, creando così un rapporto di fiducia che non può essere realizzato se non si costruisce una relazione nel tempo, che deve essere alimentata».

Ma come si spiega allora l’aumento di liquidità sui conti correnti che si continua registrare?

«Lo vediamo in Italia, ma anche nel resto dell’Europa. È un tema comune che si sintetizza nella fiducia, ancora una volta, nei confronti del sistema bancario e assicurativo e devo dire che, da questo punto di vista, il nostro Paese è alla pari con altri nel continente. In Italia abbiamo vere e proprie eccellenze, che non hanno nulla da invidiare a quelle di altri paesi». 

Sono tutti questi aspetti che ha elencato che spiegano come mai il tema del passaggio generazionale viene poco affrontato?

«Un dato, che posso offrire come riferimento, è che il 40% degli italiani non vuole pensare all’argomento, forse con qualche sfumatura di carattere scaramantico. Ciò che però colpisce è il 51% che afferma che non saprebbe a chi rivolgersi, mentre il 41% dice che ci penseranno i figli, il 27% confessa di non sapere che cosa fare, il 32% non conosce la materia e il 17% non ha avuto tempo per prendere l’argomento in considerazione (i dati riportati si riferiscono a risposte multiple). Tutte le scuse possibili e immaginabili pur di non affrontare il problema. Se poi si analizzano le risposte emerse da un’indagine fatta da Aipb, in cui si chiede al cliente a chi si rivolgerebbe per affrontare il passaggio generazionale, si nota che, oltre alle figure del commercialista, dell’avvocato e del notaio, il 36% nomina il private banker. Quindi, la discriminante è ancora una volta sul lato dell’offerta, sulla possibilità di trovare interlocutori bravi, competenti e trasparenti. All’Italia, che è un paese ricco in termini di patrimonio della popolazione, manca un quid perché possa diventare evoluta anche da un punto di vista finanziario e per raggiungere questo obiettivo il mercato deve farsi parte attiva».

Quindi il ruolo del private banker diventa sempre più importante?

«Lo è nella misura in cui svolge la sua attività di consulenza nei confronti di un patrimonio in modo olistico. Ma ciò non basta. Il mercato mostra che i risultati più forti si ottengono nelle realtà dove esiste una forte leadership e ci sono le competenze. Le migliori banche private hanno leader che godono del rispetto dei loro uomini e questo è un aspetto determinante. I risultati migliori vengono ottenuti là ove esistono competenze, perché generano fiducia, e i banker sono preparati per comprendere e rispondere adeguatamente alle esigenze della clientela, perché la sanno ascoltare. Inoltre, come sempre nella vita, per crescere bisogna sempre mettersi in discussione e ciò è più che mai necessario in un contesto, come quello dell’offerta finanziaria e dei servizi al patrimonio, che ha bisogno di innovarsi costantemente». 

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Responsabile Clienti Istituzionali Fondi&Sicav

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