Il virtuale è reale
Si sente sempre più parlare di realtà virtuali, di mondi paralleli e di metaverso, che stanno diventando temi di investimento. Alcuni sono concetti noti, altri, come il metaverso, ancora alla ricerca di una definizione precisa. Per diverse persone è un’evoluzione di internet e, come sostiene Zuckerberg, la futura evoluzione del social networking. Per altri è una riedizione, con un nuovo nome, della realtà virtuale. La tecnologia ha fatto passi da gigante e la pandemia ha accelerato il passaggio a un futuro sempre più digitale. Be Private discute di questi temi con Stefano Silvestri, responsabile della divisione gaming di Out There 360.
Perché c’è oggi così tanta voglia di evadere e ricercare mondi virtuali e paralleli?
«La voglia di evadere c’è nell’umanità dalla notte dei tempi, ma solo la tecnologia attuale permette di farlo in modo diverso. Quando penso alla mitologia greca, però, e ai racconti totalmente fantastici nei quali le persone si immedesimavano, francamente non vedo grandi differenze con un odierno libro di fantasy, che però oggi può prendere vita sotto forma di libro, di film, di serie Tv o di videogioco. Si è passati dai disegni delle Grotte di Lascaux alla trasposizione tridimensionale dei sogni e delle fantasie dell’uomo. Negli anni ’80, quando mi intrattenevo con i primi videogiochi a cristalli liquidi di Game & Watch e Super-Mario saltellava da una parte all’altra dello schermo, nella mia immaginazione avevo dinnanzi a me una riproduzione molto realistica. Oggi gli stessi giochi non sortiscono più lo stesso effetto, perché l’evoluzione tecnologica permette la realizzazione di prodotti più sofisticati. Ciò è avvenuto attraverso diversi passaggi: dalla grafica bidimensionale a quella tridimensionale e a quella a 8 bit, che poi si è evoluta a 16 e 32 bit, fino ad arrivare all’utilizzo dell’Hdr e del ray-tracing. Talvolta si fa fatica a capire, passando distrattamente davanti a un monitor, se un’immagine sia reale o virtuale. Come e dove si applica questa tecnologia? Nella disparata varietà dei modi a disposizione: dai giochi di corse agli sparatutto, dai giochi di ruolo di massa (Massively Multiplayer Online o MMO) ai metaversi».
Ma c’è un rischio effettivo che questi mondi paralleli creino discrasie e che vivano di valori diversi da quelli della vita reale del singolo individuo?
«Non penso che sia così, perché, in realtà, non ci sono mondi reali e mondi virtuali. Questi ultimi sono creati da noi umani, girano su macchine e grazie a software anch’essi realizzati da noi. Non ho mai compreso perché si ritenga che reale e virtuale siano separati. Quest’ultimo non è che un luogo in cui si assiste all’applicazione del reale: se indosso un visore di realtà virtuale, non entro certo in un’altra dimensione, perché sono sempre nella realtà, semplicemente con un dispositivo fisico in testa. La tecnologia offre una pletora di alternative crescenti man mano che si evolve e ciò che inizialmente sembra avveniristico, poi diventa consuetudine. Ai tempi dei romani, immaginare di salire a bordo di un uccello metallico e volare dall’altra parte del mondo sarebbe stato considerato magia, stregoneria. Oggi l’aereo è un normale mezzo di trasporto e grazie a esso si è notevolmente ampliato il ventaglio di possibilità a nostra disposizione. Non fanno eccezione concetti come realtà virtuale e metaversi: tra qualche decina di anni saranno considerati la normalità».
Quindi il virtuale è fisico?
«Assolutamente sì: si può immaginare di essere in un’altra parte del mondo, di essere una persona diversa da quella che si è, di cambiare identità, ma tutto rientra nella quotidianità delle opzioni che oggi ci consente il mondo reale. Peraltro nella vita capita a tutti di mettere una maschera e di fingere di essere ciò che non si è: la tecnologia ci offre solamente un’opzione in più per farlo».
Ritiene che i videogiochi abbiano svolto un ruolo di apripista da un punto di vista tecnologico?
«Lo hanno sempre fatto. La differenza è che prima ci si vergognava di ammetterlo, mentre oggi è quasi bello dirlo. L’influenza del gaming nella società contemporanea è abbastanza evidente a livello culturale: i videogiochi sono entrati nell’immaginario collettivo e dalle loro intuizioni sono derivate molte applicazioni concrete. Per esempio, se oggi ci sono i caschi per la realtà virtuale è grazie al Virtual Boy di Nintendo, allora molto rudimentale, arrivato sul mercato nel 1995. Ma, anche da un punto di vista sociale, è mutata la percezione nei confronti di chi utilizza i videogame, che ai miei tempi erano considerati dei perdenti. Ritengo che ci sia stato un cambiamento di natura culturale che via via è stato metabolizzato e accettato, superando le barriere che spesso si creano quando si è di fronte a un’innovazione. Direi che forse un’eccezione è stata i social network, che hanno subito attecchito senza che la loro adozione abbia creato disagio o sensi di colpa».
Perché pensa che per i social sia stato diverso?
«Perché per i videogiochi è stata coinvolta solo una fascia della popolazione, ossia coloro che traevano divertimento e piacere nell’utilizzarli. I social network, invece, hanno riguardato tutti, indipendentemente da inclinazioni, interessi ed età dei singoli individui. Si è trattato di un fenomeno demograficamente trasversale e, in quanto tale, impossibile da ghettizzare imputandolo a una sola categoria di persone».
Oltre all’aspetto tecnologico, lei attribuisce un ruolo importante ai videogiochi. Perché?
«Perché sono divertenti, sono belli e pongono sempre meno barriere all’ingresso. Quando ero bambino, per giocare bisognava compiere un notevole sforzo di immaginazione: il mondo veniva rappresentato in modo rudimentale ed era la nostra fantasia che lo ridisegnava e lo abbelliva, rendendolo più realistico. Ai giorni nostri, utilizzare un videogioco è come sentirsi parte di un film: le trame sono scritte da sceneggiatori affermati e ci si muove in ambientazioni spesso riprodotte da veri architetti. E dal punto di vista puramente estetico, grazie al ray-tracing, una tecnologia di rendering ormai adottata dalle console di ultima generazione, la grafica è così realistica che viene addirittura calcolato come i fotoni si propagano nello spazio. Un’applicazione pratica? Nell’ultimo Gran Turismo si vedono riflesse sulla nostra carrozzeria le macchine che abbiamo a fianco. Ma attenzione, la grafica è solo la confezione del prodotto che sta all’interno. Quest’ultimo è sempre più variegato e divertente, con possibilità di interazione che nessun altro mezzo di comunicazione permetterebbe. Non si può cambiare il finale di un film o di un libro, cosa invece possibile all’interno di un videogioco, dove spesso viene offerta una pluralità di scelte grazie a sceneggiature non lineari, che s’adattano alle scelte degli utenti. Certo, il rovescio della medaglia è la cosiddetta dissonanza ludo-narrativa, ma è un compromesso più che accettabile nel momento in cui si è letteralmente padroni dei dialoghi, dei rapporti con gli altri personaggi e, in ultimo, dei finali che offrono alcuni giochi, come ad esempio il recente Elden Ring o Cyberpunk 2077. Tutti questi sono fattori che generano divertimento e appagamento quando si utilizza un videogioco».
Come si passa dal videogioco al metaverso?
«I metaversi attuali riprendono parzialmente alcuni concetti già visti in Second Life, un mondo virtuale elettronico digitale online lanciato nel 2003. Si trattava di una piattaforma all’interno della quale condurre una serie di attività in digitale attraverso degli alter ego. I metaversi presenti oggi sul mercato sono prodotti tecnicamente modesti, che non hanno alle spalle i mezzi tecnologici dei big dell’intrattenimento videoludico, che per il momento non sembrano troppo interessati all’argomento. Sono nati da individui visionari, ma la strada, appunto, era già stata tracciata da Second Life, che a sua volta riprese probabilmente alcuni concetti già visti negli Mmo. Penso a Ultima Online, Dark Age of Camelot o World of Wacraft, un videogioco fantasy di ruolo di massa oggi ancora presente sul mercato a 18 anni dalla sua uscita. Non era pensato per avere implicazioni sociali, eppure vi si sono celebrati alcuni matrimoni e si sono tenute manifestazioni politiche. Nel 2008 i ragazzi di Rp Revolution, sostenitori della candidatura alle presidenziali Usa del repubblicano Ron Paul, organizzarono in suo favore una marcia da Ironforge a Stormwind, una parata di orchi, elfi e maghi attraverso le terre virtuali di World of Warcraft. Su queste fondamenta sono poi state innestate tutte le derivazioni del Web 3.0, senza disdegnare vistosi ammiccamenti agli speculatori nella forma di land e Nft».
Un’obiezione: pensa che Second Life sia stata davvero un successo?
«Quando la piattaforma fu lanciata, nel 2003, ebbe un grande successo, non solo mediatico, ma anche economico-finanziario, che è andato però spegnendosi negli anni a seguire. Pensi, ad esempio, che come accade oggi coi metaversi, già allora c’era una valuta interna, il Linden dollar. Forse il limite di Second Life è stato di non ragionare in un’ottica di servizio persistente, cosa invece comune oggi nei GaaS (Game as a Service), un modello di business nato per monetizzare e incentivare gli utenti a restare in un videogioco anche ben dopo il suo lancio. Un tempo venivano messi sul mercato prodotti che, una volta concluso il tradizionale ciclo di vendita, erano rimpiazzati dai loro seguiti o dai concorrenti. Oggi, invece, si creano videogiochi persistenti, sempre online, spesso gratis e basati su microtransazioni. Fortnite, ne è il migliore esempio, con oltre 5 miliardi di dollari all’anno di fatturato generato dalla vendita di prodotti cosmetici».
Tornando al metaverso, in nuce, quindi, non è un’innovazione?
«Più che un’innovazione direi che è un’evoluzione di concetti già presenti separatamente, che nei metaversi sono stati fusi, omogeneizzandoli. Nel passato, come indicato in precedenza, ci sono state innovazioni che hanno poi portato a Second Life, con il suo fondatore, Philip Rosedale, che è stato probabilmente il vero visionario. Ora ci troviamo di fronte a chi ne riprende il modello, espandendolo, introducendo però evidenti limitazioni tecniche. La grafica, oggi, è in proporzione peggiore a quella di un tempo, e, dietro una stilizzazione alla Minecraft, cela una più bassa conta poligonale e quindi richieste di calcolo alleggerite. Tutto ciò per tacere degli intrinseci limiti tecnologici mostrati, ad esempio, da Decentraland durante la Metaverse Fashion Week. Stanno però arrivando alcuni nuovi metaversi con una grafica molto più realistica, dove sarà nettamente più facile immedesimarsi e che saranno portatori di cambiamenti all’interno del mondo virtuale, dal punto di vista dell’economia interna e degli strumenti d’intrattenimento proposti».
Come definirebbe il metaverso?
«Utilizzerei le regole stilate da Matthew Ball, ideologo di metaversi, anch’esse sette come quelle ideate da Tony Parisi. La prima è l’esistenza infinita: non si resetta, non si mette in pausa o non finisce mai. Funziona in tempo reale ed è indipendente da fattori esterni, sebbene gli sviluppatori possano creare e pianificare eventi nel metaverso. Non ci sono limiti alla dimensione del pubblico e al numero di utenti simultanei: tutti possono in qualsiasi momento connettersi al metaverso e partecipare alla sua vita su un piano di parità con il resto. Ci dev’essere un’economia pienamente funzionante: le persone e le aziende possono ricevere una sorta di ricompensa per il “lavoro” che porta “valore” riconosciuto da altri, spenderla o investirla. Il metaverso è un “tutto digitale unificato”: collega il mondo fisico e quello digitale, piattaforme aperte e chiuse, reti private e pubbliche. È richiesta l’interoperabilità di dati, oggetti, asset, contenuti trasferiti tra mondi digitali: ad esempio, un utente dovrebbe essere in grado di trasferire un asset da Decentraland a The Sandbox. I metaversi, infine, devono offrire contenuti ed esperienze create dai propri utenti. Oggi non esiste un metaverso che soddisfi tecnicamente tutti questi requisiti, che però sono utili per capire chi vi si avvicini maggiormente rispetto ad altri».
Quali sono i potenziali sviluppi?
«I potenziali sviluppi andranno di pari passo con l’evoluzione tecnologica, il cui futuro è difficile al momento da ipotizzare. Buona parte dei metaversi in circolazione (sebbene non i più famosi) si basa, ad esempio, sulla realtà virtuale, necessaria a generare un maggiore coinvolgimento. Questa però, così com’è strutturata oggi, non è sufficientemente sviluppata per una fruizione accessibile e di facile utilizzo: bisogna indossare un caschetto pesante, alla lunga scomodo e che ha un costo di non meno di 430 euro, come nel caso del Meta Quest 2, il quale è un prodotto stand-alone. Diversamente bisogna aggiungere anche il costo di un Pc o di una PlayStation 5 (mi riferisco all’imminente PlayStation VR 2). Se per ipotesi si riuscisse a riprodurla attraverso un paio di occhiali, sulla falsariga dei Ray-Ban Stories, gli smart glasses ideati dall’omonimo marchio insieme a Meta e che permettono di restare “sempre connessi e non perdere mai di vista il mondo che ti circonda” (rif: https://www.ray-ban.com/italy/discover-ray-ban-stories/clp), allora la realtà virtuale sarebbe di più facile accesso e si potrebbe assistere a una sua diffusione di massa. E tra i primi beneficiari ci sarebbero i metaversi, come ben sa Zuckerberg, che pochi giorni fa ha annunciato ben tre nuovi prototipi di visori VR (rif: https://www.ansa.it/sito/notizie/tecnologia/hitech/2022/06/20/zuckerberg-il-metaverso-ci-cambiera-per-sempre_1d23e7e6-12b2-44e7-9540-158b2cb3269a.html)».
Un esempio concreto di come il metaverso potrebbe entrare a fare parte delle nostre vite nei prossimi anni?
«Potrebbe riguardare molteplici ambiti e gli sviluppi essere numerosi. Oggi c’è già chi sta proponendo centri commerciali virtuali, in cui fare shopping col proprio avatar, e il cui costo al metro quadrato si avvicina a quello delle controparti reali. Non entro nel merito se simili valutazioni abbiano o meno un senso, ma indicano che le possibilità sono molteplici. E poi si parla in questi giorni di un vero e proprio boom di investimenti “immobiliari” nei metaversi. Se poi (ma stiamo fantasticando) la tecnologia fosse in grado di offrire feedback sensoriali che vadano oltre quelli attuali (vista, udito e tatto), allora i metaversi potrebbero permetterci di immergerci in mondi molto simili a quello reale. Tutto ciò aprirebbe la porta a moltissime opportunità, dal dating al turismo virtuale. Il che sposterebbe il focus una volta per tutte sui contenuti e non più solo su land e Nft».
In termini di modello di business, quali interazioni vede tra il mondo fisico e quello virtuale?
«Direi che, nella situazione attuale, la decisione di alcuni marchi di entrare nel metaverso sia ascrivibile soprattutto a motivazioni di marketing. Su quanto ciò possa essere efficace, guardando ai numeri dei frequentatori di metaversi, che sono alcuni milioni, potrebbero sorgere alcuni dubbi, visto che, utilizzando un social network come Instagram, si può raggiungere un miliardo abbondante di consumatori. Tuttavia, viste le potenzialità che lo strumento potrebbe avere nel futuro e considerato l’interesse crescente nei suoi confronti, la scelta di un brand di esserci è legata a questioni d’immagine e alla volontà di raccontare il proprio marchio con modalità sempre più vicine al consumatore che si vuole fidelizzare o catturare, più che al semplice reach. Non va però dimenticato che, poiché le attività di acquisto sui metaversi avvengono prevalentemente attraverso Nft e criptovalute, oggi vengono poste barriere all’ingresso che possono ridurre quell’engagement che va cercando chi sta investendo e comunicando nei metaversi. Basti pensare che in alcuni casi per iscriversi bisogna essere muniti di un wallet digitale. Ma i prossimi metaversi stanno già lavorando per utilizzare valute correnti come euro e dollari».
Pensa che le grandi aziende produttrici di videogiochi entreranno nel metaverso?
«Le reali potenzialità dei metaversi sono ancora tutte da scoprire ma, in termini prospettici, hanno già solleticato appetiti nel mondo finanziario. I big dei videogame, invece, paiono restare alla finestra. Vuoi perché i numeri per il momento non sono ancora probabilmente appetibili, vuoi perché c’è una differenza di fondo da non dimenticare: realtà come Activision Blizzard, Electronic Arts o Ubisoft producono contenuti; i metaversi, invece, sono solo piattaforme che ospitano contenuti creati da terzi, il che spiega perché al momento la loro offerta sia così eterogenea da fare contenti al tempo stesso tutti e nessuno. Chiaro è che nel momento in cui i colossi del gaming si muovessero concretamente nei metaversi, il balzo in avanti potrebbe essere vertiginoso. Basti pensare a che cosa rappresenta tutt’oggi Gta Online in termini di vendite, di engagement, di viewership su Twitch e YouTube, e soprattutto di contenuti. Se Grand Theft Auto dovesse mai diventare un metaverso, giusto per fare un esempio, gli attuali equilibri di mercato verrebbero profondamente mutati».