Il rischio della non sostenibilità

«Chiunque creda che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo o un economista». – Kenneth Boulding

La parola “prosperità” è diventata sinonimo di successo negli affari e di una significativa ricchezza finanziaria individuale. Il capitalismo è così diventato la migliore leva per raggiungere la prosperità. Ma ora stiamo raggiungendo i limiti del sistema. Il capitalismo non riesce più a soddisfare le aspettative e creare progresso economico e opportunità per il maggior numero di persone, in quanto contrasta con i limiti imposti all’uomo dal pianeta Terra. Nonostante ciò, a oggi tutte le maggiori istituzioni internazionali, come l’Unione Europea o la Banca Mondiale, considerano la crescita come panacea universale di tutti i problemi sociali ed economici.

“Il capitalismo? Libera volpe in libero pollaio”, diceva Karl Marx. Il capitalismo come strumento di crescita economica ha come idea fondante la proprietà privata, l’impresa privata e l’accumulo di ricchezza. È però chiaro che queste idee sono proprio quelle che ci hanno portato nell’era dell’individualismo. Il capitalismo non ha solo cambiato l’economia, ma ha trasformato il modo di scambiare, produrre e consumare beni e servizi, di fatto tutta la nostra società, secondo un progetto inizialmente di buone intenzioni: ad esempio, creare ricchezza tramite la proprietà privata o la possibilità di ottenere prestiti finanziari. Qualcosa però ci è sfuggito di mano. 

Secondo “Il sole 24ore”, 26 miliardari nel mondo detengono la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale1(rispetto ai 380 miliardari del 2009). Ciò che preoccupa particolarmente è che la ricchezza si concentra sempre più in pochissime mani, tanto che il patrimonio dell’uomo più ricco del mondo, Bernard Arnault, magnate della moda francese, è salito a 186,3 miliardi di dollari. L’1% di questa cifra equivale all’intero budget sanitario dell’Etiopia, un paese con 105 milioni di abitanti2. Più che la questione etica o ideologica della questione, conta la visione limitata di un capitalismo miope che punta alla fetta più grande di una torta da dividersi, invece di pensare a come ampliare la torta.

Che cosa è successo?

Il limite del capitalismo, risiede nei mercati finanziari, dove la proprietà suddivisa in azioni è completamente decorrelata dal lavoro che produce valore. Mentre l’azienda dovrebbe impegnarsi su una qualità di lungo periodo, gli azionisti hanno aspettative di redditività a breve, quindi le due forze  lavorano in direzioni opposte e possono causare tensioni interne e incoerenze nel sistema. Per lungo tempo i mercati finanziari hanno promosso troppo facilmente la convinzione che la ragion d’essere di un’azienda sia quella del manifesto di Milton Friedman, cioè generare profitti per i suoi azionisti. I mercati, quindi, hanno spesso ignorato altri stakeholder che giocano un ruolo vitale nella prosperità sostenibile delle comunità, degli individui e delle imprese, e, così facendo, minacciano gli stessi sistemi che li hanno resi prosperi.

LA SOSTENIBILITÀ È SOSTENIBILE?

Il Rapporto Brundtland del 1987 definisce come “capitalismo sostenibile” quello che soddisfa i bisogni della generazione presente senza compromettere le possibilità di quelle future. Non a caso nel medesimo anno nasce la Cindinica, nuova scienza del rischio, come risposta a tragedie quali l’esplosione di Chernobyl o il disastro di Bhopal. In un mondo in cui in paesi come la Germania o il Brasile l’accelerazione della crescita economica è richiesta per legge, senza che venga fissato alcun limite, risulta difficile pensare che il capitalismo, così come lo abbiamo conosciuto,  possa essere sostenibile ancora a lungo. In questo contesto, cambiare rotta è d’obbligo, perché un’azienda che non riconosce la propria responsabilità sociale non è solo improduttiva di per sé, ma porta anche al fallimento collettivo e alla non continuità sociale, in quanto punta a una sostenibilità che in realtà è sostenibile solo in termini di profitto. Il rischio è che questo profitto si tramuti in costi a medio e lungo termine.

Oggi, le più grandi sfide della società, sia a livello sociale, sia ambientale, non possono più essere finanziate solo dai governi o da organizzazioni sovrannazionali. La complessità di questo discorso è tale da richiedere una presenza attiva da parte dei mercati privati che devono intervenire e creare prosperità condivisa attraverso un approccio più equilibrato nei confronti dell’insieme delle parti. È inoltre necessario dirigere il capitale di investimento privato dove può essere maggiormente utile per risolvere i problemi sociali e ambientali più pressanti. Questo nuovo ordine inclusivo può e deve essere un circolo virtuoso che porta a un sistema economico molto più sostenibile e a una prosperità maggiormente condivisa.

Il concetto rappresenta un cambiamento nella creazione e nell’acquisizione di ricchezza, sia sociale, sia finanziaria, che sta di fatto già avvenendo attraverso la nascita di hub di economia collaborativa, dove si trasformano idee tecnologicamente rivoluzionarie in soluzioni di business. Tutto ciò risulta però difficile senza il sostegno di un’adesione generale che riconosca la necessità di un cambiamento concreto.

la Nfrd non basta

La non-financial reporting directive,  è condizione necessaria ma non sufficiente. La necessità di cambiare approccio si è manifestata anche recentemente il 10 di marzo 2021 con l’intervento dell’emendamento della Non-financial reporting directive (direttiva 2014/95/Eu, Nfrd) che prevede, da parte di grandi aziende quotate e non, l’obbligo di emettere una dichiarazione di carattere non finanziario su quattro tematiche principali: impatti ambientali, problematiche di tipo sociale sui dipendenti, rispetto dei diritti umani, corruzione e riciclaggio. In particolare, questa direttiva porta chiarimenti sul double materiality principle, cioè il principio del doppio binario che si riferisce, sia agli impatti finanziari derivanti dai temi della sostenibilità, sia agli impatti aziendali sulle persone e sul pianeta. Detta in sintesi, agisce sul rischio complessivamente inteso di cui un’azienda può essere portatrice. Pariteticamente pone il tema dell’assurance dai rischi, non solo quelli assicurabili perché trasferibili, ma su tutto lo spettro di rischio.

Sottolineandone la necessità e ponendo i principi, cioè il “cosa dovere fare”, la direttiva non indica però le soluzioni concrete sul come agire per arginare il rischio non indifferente di terminare tutte le risorse presenti sulla Terra, provocando un pregiudizio irreversibile per tutta l’umanità. La creazione di prosperità condivisa non può che avvenire tramite un maggiore equilibrio tra le parti, che necessita, a sua volta, un’incontrovertibile misurazione della performance  non solo economica. La solidità del rischio, complessivamente inteso, offre un indice particolarmente pertinente, perché rappresenta l’aspettativa di vita dell’azienda considerata, nonché il suo indice di civilizzazione, perché è più civile chi maggiormente protegge la propria realtà e gli altri dal rischio.

Questo indice di misura, la cui indipendenza è data dal carattere scientifico perché fondato sulla nuova scienza del rischio e non sulla rilevazione di parametri discrezionali soggettivi, deve permettere non solo di guidare le scelte dei consumatori, ma anche quelle degli investitori, migliorando la trasparenza del mercato e assicurando uno sviluppo a lungo termine degli aspetti connessi alla sostenibilità. A oggi, le società sono ancore lasciate libere di adeguarsi a qualunque standard ritengano giovevole alla propria attività. Non è infatti previsto l’obbligo di conformarsi a un indice preciso e scientifico secondo parametri ben definiti di misurazione inequivocabili e paritetici, a prescindere dal settore specifico.

QUAL È LA SOLUZIONE?

I limiti mostrati dal capitalismo esponenziale sono personificati in aziende il cui business model si riassume in un perenne cash burning, che richiede continui finanziamenti. Il tutto per comprare crescita senza alcuna prospettiva di raggiungere un traguardo con margini operativi positivi, se non la possibilità per i  fondatori di vendere e incassare le stock option. Tutto ciò crea un problema che va oltre la logica meramente economica, sfociando in una questione anche ambientale e sociale. 

L’alternativa vede quindi due possibilità. O il capitalismo si riforma da solo con imprese la cui responsabilità deve tradursi nell’abbandonare il breve termine per lavorare anche a migliorare la società e non solo per trarne profitto, oppure verrà riformato dagli elettori che, tramite i loro governi, affronteranno direttamente il problema. In entrambi i casi sarà necessario riagganciare la finanza all’economia reale e sviluppare nuove eccellenze manageriali, che integrino la sostenibilità nelle logiche di governance e nei processi di innovazione tecnologia, nei business model e nelle filiere produttive. Il futuro appartiene molto chiaramente alle aziende focalizzate sulla risoluzione dei problemi del mondo reale, sostenibili e profittevoli, che crescono a un ritmo gestibile. Sono quelle che vengono chiamate Life first company™ dal World protection forum™. 

Un capitalismo quindi sostenibile e, al tempo stesso, durevole.

1 https://www.ilsole24ore.com/art/disuguaglianze-26-posseggono-ricchezze-38-miliardi-persone-AEldC7IH?refresh_ce=1

2 https://www.ilsole24ore.com/art/disuguaglianze-26-posseggono-ricchezze-38-miliardi-persone-AEldC7IH?refresh_ce=1

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Genséric Cantournet, President e Co-founder KELONY® e Angela Pietrantoni, CEO and Co-founder presso KELONY®

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