Italia, un concentrato d’Europa
Be Private discute dell’Italia e delle sue prospettive con Gilles Guibout, head of European strategies presso Axa Investment Managers e responsabile di una serie di fondi azionari sui mercati europei.
I dati macro italiani sono molto confortanti e l’Italia sembra non essere più il fanalino di coda dell’Europa. Che cosa ne pensa?
«Seguo l’Italia da diversi anni e ritengo che sia un amplificatore delle dinamiche presenti nella zona euro, nel bene e nel male, sia a livello politico-economico, sia su quello geografico. Sembrerà un’estremizzazione, ma guardare all’Italia è come prendere in considerazione una realtà in cui si fondono due opposti: da un lato la Germania, dall’altro la Grecia. I problemi che l’Italia sta affrontando sono gli stessi che riguardano il resto d’Europa, visto che ha caratteristiche simili: è molto esposta al commercio internazionale e alla crescita del Pil e ha sofferto dei problemi che hanno riguardato il sistema bancario continentale. Ciò fa sì che Piazza Affari tende, in determinate situazioni, ad amplificare ciò che avviene nel resto d’Europa. Quindi, non mi sorprende vedere questo Paese fare bene in un momento in cui si assiste a un’accelerazione della crescita mondiale, visto che è molto esposto alle esportazioni: dall’Europa agli stati Uniti, passando anche per la Cina. Se si analizza l’indice Ftse Mib, si può vedere che oltre il 40% del fatturato delle aziende che lo compongono è prodotto sul mercato domestico, il 23% in Europa e il 35% nel resto del mondo. Inoltre, non va dimenticato che, più in generale, il tessuto economico italiano è costituito da molte aziende di piccole e medie dimensioni che hanno deciso di crescere a livello internazionale, cercando così nuovi mercati di sbocco. Siamo in una fase di ripresa dell’economia mondiale e l’Europa, insieme all’Italia, dopo 10 anni di crescita debole, dà finalmente segni di vitalità».
Un cambio di marcia che ha le sue ragioni?
«Certo, dopo anni di politiche fiscali e monetarie restrittive, il Vecchio continente ha cambiato indirizzo, abbracciando misure espansive il cui effetto si è riverberato sul mercato italiano in generale e su quello azionario».
Da questo punto di vista, ritiene che il Pnrr sia una grande scommessa per il nostro paese? Quali sono le ricadute sul mercato azionario italiano?
«È proprio questa la grande novità. Ci si chiede se si sta andando incontro a una normalizzazione della crescita mondiale, ma in Europa, soprattutto in Italia, siamo ancora all’inizio, visto il potenziale impatto di una serie di iniziative, tra cui il NextGenEu. La traduzione di quest’ultimo nel Pnrr, comporta un piano massiccio di investimenti, con un impulso pari a circa il 12% del Pil, che deve essere iniettato nel tessuto economico in un arco di tempo limitato. È proprio per questa ragione che mi aspetto che l’Italia possa sovraperformare. C’è poi un altro elemento, molto specifico del mercato azionario italiano: il forte peso del settore bancario. Anche se forse ci sono ancora alcuni punti di domanda, il comparto è migliorato molto. Le banche hanno fatto pulizia all’interno dei loro portafogli e, anche a livello regolamentare, la pressione che aveva reso difficile la distribuzione dei dividendi o richiesto aumenti di capitali sta diminuendo e ci si sta avvicinando alla fine del processo. La stessa considerazione può essere fatta sulla necessità di fare accantonamenti, sia che questi fossero legati ai crediti deteriorati, sia al finanziamento del Fondo di risoluzione bancario. Tutto ciò implica che, se l’economia non dovesse deteriorarsi in modo significativo, le banche potrebbero ritornare a remunerare i propri azionisti. In aggiunta a queste considerazioni, va evidenziato che il riposizionamento della curva dei tassi, dopo 10 anni di continua discesa, potrebbe diventare un fattore importante per la generazione del margine di interesse, voce decisiva all’interno dei conti economici delle banche. Ricapitolando, sono tre i fattori che dovrebbero giocare un ruolo positivo per il mercato italiano: il Pnrr, l’impatto della regolamentazione bancaria molto più contenuto e la curva dei tassi».
Ma essere troppo concentrati sul margine di interesse è anche un limite.
«Se il posizionamento della curva dei tassi cambia, nonostante non ci si attenda niente di drastico, si tratta comunque di un trend positivo e non va ignorato. In aggiunta, penso che sia un aspetto tenuto in seria considerazione dagli investitori esteri, quando guardano al mercato italiano. Ovviamente questa non è l’unica considerazione che ci porta a prendere in considerazione i titoli finanziari. Noi facciamo un’attenta selezione e cerchiamo di identificare le banche che possono beneficiare sì di un irripidimento della curva, ma che hanno anche saputo cambiare il loro modello di business, come ad esempio Intesa o Fineco».
Una provocazione: perché un investitore straniero dovrebbe comperare il mercato italiano, visto il suo peso contenuto all’interno degli indici?
«Per l’eccellenza che vi si può trovare, che va oltre il fattore paese. Una volta che non è più presente il rischio di esplosione dell’Eurozona, grazie anche all’emissione di eurobond, non ha più senso non considerare l’Italia e le sue aziende. Una volta che si accetta di allocare nella zona euro, allora non si dovrebbero più fare distinzioni a livello geografico. Io, ad esempio, ho deciso di sovrappesare l’Italia in Europa, perché credo che ci siano diverse aziende di valore anche a livello mondiale e ho un sottopeso invece in Germania. Non guardo più a dove una società ha sede, bensì a come è strutturato il business, al suo potenziale e alla capacità di pagare dividendi, aspetto che non è trascurabile in un contesto di tassi ancora bassi».
Tornando al Pnrr, ha senso evidenziare gli impatti a livello settoriale?
«Sì, perché comunque questi soldi hanno un utilizzo già definito: la trasformazione del Paese. Il Pnrr punta a fare digitalizzazione e innovazione, competitività e cultura, rivoluzione e transizione energetica, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute. Per alcune di queste voci è difficile trovare una significativa rappresentatività nel mercato azionario, per altre invece si aprono maggiori opportunità. Sul tema delle infrastrutture sostenibili, potrebbero essere coinvolte società del settore industriale, come Cnh, Iveco, Fincantieri o Salcef, su quello della transizione energetica, invece, è direttamente impegnato il comparto delle utility, da Enel a Erg a Falck, passando da Terna per la rete, per arrivare alle municipalizzate, e ancora il sistema industriale, con una società come Prysmian. Parlare invece di digitalizzazione, significa toccare molteplici segmenti: dalle utility alla tecnologia (per esempio Stm), dall’industriale alle telecomunicazioni (Inwit). Inoltre, va ricordato che, negli ultimi anni, si è anche ampliato il numero di aziende tecnologicamente innovative che sono state quotate sul mercato e si occupano di cybersecurity, piuttosto che di intelligenza artificiale, come Almawave o Cy4gate. Un settore, invece, che non sarà direttamente toccato dal Pnrr è quello dei beni di consumo, solitamente amato dagli investitori globali».
Guardando alle valutazioni, come si raffronta il mercato italiano a quello europeo?
«Se si è gestori attivi, il confronto non offre valore aggiunto. Come dicevo in precedenza, io investo in Eurozona, quindi il multiplo cui tratta l’Italia, rispetto a quello dei mercati europei, non è un metro di riferimento: scelgo la singola azienda e la confronto con le sue pari. Se si vuole fare un paragone tra indici di diverse aree geografiche, allora bisogna sempre analizzare come questi ultimi sono composti e la struttura del mercato, perché ciò potrebbe aiutare a capirne le differenze. La borsa italiana tratta a un P/E di 12x per il 2021, mentre il mercato europeo, nel suo complesso, è a 16x. Il raffronto ci porta a dire che c’è uno sconto del 25% del primo rispetto al secondo. Tuttavia, nel fare questo paragone, bisognerebbe ricordare che nel Ftse Mib il peso dei finanziari e degli energetici è elevato, esattamente l’opposto di quanto succede per il Dax, in Germania. Nel 2020, l’Italia ha sottoperformato il mercato europeo, ma ciò è avvenuto per due settori che sono stati in negativo: l’energia e la finanza. Quindi, il livello del P/E italiano può essere spiegato dal peso maggiore di questi ultimi due settori».
Quindi perché investire in un fondo italiano?
«L’Italia, vista la struttura del mercato, esposta all’andamento dell’economia globale, viene spesso vista come una proxy del Vecchio continente. L’Italia è un concentrato d’Europa, un mercato che permette di andare a leva sull’intera area geografica. Poi, si può discutere se abbia o meno senso investire in questo Paese attraverso un fondo dedicato o uno che riguarda tutta l’area euro. Posso però capire che, per alcuni investitori istituzionali, ci sia la necessità di avere esposizione a un paese specifico, perché ne vogliono sostenere l’economia. Credo che ci siano prodotti, come ad esempio i Pir che, oltre a sostenere il tessuto economico italiano, offrono vantaggi fiscali tali da diventare uno strumento d’investimento molto appetibile. Inoltre, avere un prodotto dedicato permette l’esposizione a realtà imprenditoriali che sarebbe difficile replicare in un fondo con un patrimonio netto di grandi dimensioni».
Quanto conta per un investitore avere in Italia Mario Draghi come primo ministro?
«Ha rassicurato gli investitori sulla possibilità che l’Italia intraprenda un percorso di trasformazione razionale. La sua è una gestione più allineata all’Europa, visto anche il ruolo da lui avuto quando era a capo della Banca centrale. Draghi ha partecipato alla riduzione del rischio politico, allontanando la possibilità che per il Paese ci fosse una possibilità di uscire dall’euro. Ora è un capitolo chiuso, perché tutti hanno capito che senza la divisa europea non si va da nessuna parte. E questa considerazione non vale solo per l’Italia, perché anche in paesi come la Francia queste tentazioni erano presenti, nonostante non ci fosse il coraggio di ammetterne l’esistenza. Ritornando all’Italia, credo che l’unica via d’uscita per il Paese passi attraverso un rafforzamento dell’Europa, anche se ciò, inevitabilmente, comporterà una cessione di sovranità. Sarà un processo faticoso e non sarei sorpreso se creasse alcune turbolenze sui mercati. Ma non c’è altra soluzione, soprattutto se si guarda al contesto geopolitico: quale ruolo potrebbe giocare la singola nazione europea schiacciata tra due blocchi antagonisti quali la Cina e gli Stati Uniti? Quindi è importante che si vada verso un rafforzamento dell’Eurozona e, da questo punto di vista, Draghi è una figura chiave per l’Italia, e non solo».
Che cosa succederà nel futuro prossimo, da un punto di vista politico?
«Difficile da pronosticare: molti si attendono che l’attuale primo ministro possa diventare Presidente della repubblica, ma questo passaggio potrebbe poi portare a elezioni anticipate e generare così incertezza sul mercato, rispolverando i vecchi timori, tra i quali l’elevato livello di indebitamento del Paese. Ciononostante, Draghi al Quirinale sarebbe una garanzia che il percorso intrapreso dall’Italia continuerà, visto l’importante ruolo che la figura del Presidente ha avuto negli ultimi cinque anni. In merito al possibile nuovo esecutivo che si andrà a formare, nel caso si andasse incontro all’evoluzione descritta, ritengo che qualsiasi forza politica uscisse vincitrice da un confronto elettorale, avrebbe comunque un cammino da percorrere già segnato: le linee guida sono decise in Europa e indietro non si torna. Se questo momento di transizione creasse momenti di nervosismo sulla borsa, penso che si potrebbero aprire opportunità di investimento nel Paese».