L’insostenibile leggerezza del marketing?


Stéphane Vacher, Responsabile Comunicazione Private Gruppo Credem

Potersi vantare oggi di disporre di un prodotto sostenibile sta diventando sempre più un argomento di vendita. Anzi, negli scaffali dei supermercati chi di noi non ha potuto sperimentare sulla propria pelle che comprare “green” comporta spesso l’applicazione del cosiddetto “premium price”, ovvero di un sovrapprezzo rispetto alla media di categoria? Da una parte, questa tendenza è rassicurante, perché conferma la crescente sensibilità del consumatore finale ai temi di sostenibilità ambientale: è disposto addirittura a pagare di più pur di comprare prodotti a ridotto impatto sul pianeta. Dall’altra, però, queste recenti modalità di consumo fanno sorgere nuovi interrogativi e nuovi possibili tranelli: come certificare che il processo produttivo rispecchi effettivamente i valori ecologici ricercati? O come garantire che la concorrenza continui a svolgersi in modo leale di fronte a possibili abusi? In una domanda, come possiamo proteggerci di fronte alla tentazione di alcuni operatori di usare la sostenibilità come un mero argomento “di marketing” senza in realtà rispettare i crismi di questa promessa? 

L’attualità recente è ricca di alcuni esempi di aziende beccate con “le mani nel sacco”. È noto a tutti l’esempio della casa automobilistica che prometteva di produrre modelli diesel puliti, ma in realtà alterava le misurazioni delle fuoruscite di CO2 dalle marmitte. I veicoli coinvolti sul banco di prova avevano emissioni in linea con le prescrizioni legali statunitensi, grazie al software della centralina appositamente modificato per essere in grado di ridurre le emissioni a scapito di altre prestazioni durante i test di omologazione, migliorando le prestazioni e contravvenendo ai vincoli ambientali durante il normale funzionamento. Le azioni legali sono costate alla casa produttrice decine di miliardi di dollari di spese legali e risarcimenti, senza includere la vastità di un danno reputazionale che richiederà anni per essere sanato. 

Meno noto, ma altrettanto significativo, il caso di una compagnia aerea low cost accusata di inganno per avere dichiarato che l’impatto di un suo aereo è inferiore a quello di un’auto ibrida. Di fronte alle polemiche che sono immediatamente sorte, la società ha intanto riorientato la sua comunicazione esterna su una più saggia, e più facilmente misurabile, dichiarazione di intenti a compensare le sue emissioni di CO2 con adeguate politiche di riforestazione. 

Nel vecchio glossario del diritto del consumatore si chiamava “pubblicità ingannevole”. Nel nuovo vocabolario Esg, è stato ribattezzato “greenwashing”, ma sempre della stessa cosa parliamo, ovvero di strategie di marketing e comunicazione finalizzate a dimostrare un finto impegno nei confronti dell’ambiente con l’obiettivo di catturare l’attenzione dei consumatori attenti alla sostenibilità. Oggi, però, il contesto normativo si è notevolmente evoluto, in particolare nel quadro giuridico europeo, a protezione del consumatore finale. Consumatore che, nel frattempo, è diventato anche più social, aumentando in modo esponenziale la probabilità di divulgazione virale di informazioni potenzialmente devastanti per le aziende che “barano”. 

Nel nostro settore, quello della consulenza finanziaria e patrimoniale, stanno crescendo le metodologie e gli enti di certificazione in grado di attribuire il bollino verde di sostenibilità a un numero sempre maggiore di prodotti. Un grande passo avanti verso l’adozione di modelli sempre più standard da applicare alle politiche di investimento e alla scelta dei sottostanti. Stiamo passando da una logica di esclusione (di alcuni paesi, settori o aziende palesemente in contraddizione con logiche Esg) a una visione che valorizza in misura crescente l’adozione di politiche attive per il rispetto di criteri di sostenibilità ecologica, sociale e di governo. Va bene, ma non basta escludere gli stati opachi, il commercio delle armi o le aziende che sfruttano il lavoro minorile. Si è notevolmente alzata l’asticella del benchmark e l’investitore pretende oggi che i suoi flussi di risparmi possano essere orientati verso chi rispetta il suo stesso assetto valoriale. 

A lungo questa tipologia di investimenti ha sofferto della sua reputazione di essere eticamente corretta, ma scarsa di prospettive di rendimento. Oggi, però, è emerso chiaramente che si può investire sostenibile senza rinunciare alla performance. Una recente ricerca di Invesco ha evidenziato che da inizio 2020 l’indice S&P 500 Esg ha maturato un extra rendimento del 3,1%, di cui lo 0,9% riconducibile all’asset allocation settoriale e il restante 2,2% alla selezione di titoli con maggiori punteggi Esg. Uno studio di più ampio respiro temporale, guidato dai tedeschi Friede, Busch e Bassen, ha analizzato nel 2015 la relazione tra fattori Esg e performance finanziaria delle società negli anni 1970-2014 e ne è emersa una chiara correlazione di lungo periodo. Le aziende più virtuose risultano indiscutibilmente quelle in grado di generare più valore di lungo periodo, con minore volatilità e minore rischio. 

Fare scelte rispettose dell’ambiente, inclusive da un punto di vista sociale e che valorizzino modelli di governance più trasparenti, CONVIENE. 

Conviene al pianeta che ringrazia per il pensiero, anche se tardivo. Conviene alle aziende, a condizione che lo facciano in modo organico e non di facciata. Conviene al risparmiatore, che ne ricava prospettive di rendimento più stabili. Se al valore di convenienza, che stuzzica da sempre l’homo economicus che siamo, si aggiunge anche la vena emotiva di partecipare a un’avventura collettiva in modo più responsabile, meglio ancora! 

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