Passaggio generazionale: funziona la co-leadership

L’aumento delle aspettative di vita porterà con sé diversi cambiamenti che, tra i vari ambiti, riguarderanno anche il mondo delle imprese. In un tessuto economico come quello italiano, dove le aziende di famiglia ricoprono un ruolo fondamentale, il tema della gestione del passaggio generazionale diventa ancora più cogente. Be Private ha affrontato l’argomento con Salvatore Sciascia, professore di economia aziendale e co-direttore di Fabula, il family business Lab dell’Università Cattaneo – Liuc.

Qual è il legame tra longevità e family business?

«Il legame è più che mai forte, soprattutto considerando che c’è una corposa presenza della generazione dei baby boomer a capo di aziende. Nel contesto delle imprese familiari, l’ultima edizione dell’Osservatorio Aub (Aidaf, Unicredit e Bocconi) riporta che la percentuale di imprese familiari guidate da leader over 70 è significativa: 27%. Il dato, peraltro, è in aumento rispetto al passato. Più in generale, una recente analisi di Heidrick & Struggles descrive un contesto italiano nel quale gli amministratori delegati, quanto meno nell’ambito delle imprese quotate, arrivano a ricoprire il loro ruolo in età più avanzata: mediamente a 52 anni (terzi al mondo), mentre la loro età media è 60 anni (secondi al mondo)».

La longevità degli amministratori delegati è ascrivibile a fattori demografici o culturali?

«C’è una combinazione di entrambi i fattori, ma la demografia è indubbiamente rilevante. È indiscutibile, poi, che individui più longevi portino con sé un bagaglio di esperienza che è fondamentale nella conduzione di un’azienda, soprattutto in termini di leadership. Ritengo, però, che, da questo punto di vista, vadano presi in considerazione anche i potenziali limiti che una conduzione aziendale troppo senior potrebbe comportare».

A che cosa fa riferimento? 

«La situazione dell’Italia che ho descritto in precedenza accende i riflettori sul tema dell’età dei leader d’impresa. Bisogna chiedersi se lo stato attuale delle cose sia fisiologico e se sia davvero un bene avere un capo anziano nelle imprese di famiglia».

Qual è il suo parere a tale proposito?

«Ritengo che l’età avanzata porti con sé luci e ombre. Cominciamo con le ombre. Un leader più anziano si può caratterizzare per una certa rigidità, intesa come fermezza nelle proprie convinzioni: uno svantaggio per le imprese di oggi invitate al cambiamento continuo. Ugualmente potrebbe riscontrare delle difficoltà ad adattarsi alle nuove tecnologie, soprattutto quelle digitali, limitando così la capacità dell’organizzazione di rimanere al passo con l’innovazione. Inoltre, c’è la possibilità che manifesti un certo distacco dalle generazioni più giovani, ossia faccia fatica a comprendere appieno le esigenze e le prospettive di chi costituisce la parte principale della forza lavoro e spesso della clientela. A tutto ciò si uniscono i rischi di salute associati all’età: a un certo punto, le energie e la lucidità calano, mentre aumentano le possibilità di incorrere in patologie che possono comportare un allontanamento dal timone dell’azienda per periodi più o meno lunghi. Infine, col passare del tempo, un leader familiare diventa sempre più radicato nelle dinamiche della famiglia, per cui aumenta la possibilità che queste ultime interferiscano nelle decisioni aziendali con modalità che non sempre favoriscono l’interesse dell’impresa, portando a compromessi o decisioni subottimali».

È una disanima molto severa…

«Sì, ma ci sono anche molte luci che hanno la loro valenza. Un leader anziano ha spesso una vasta esperienza accumulata nel corso degli anni, che è spesso preziosa nel prendere decisioni informate e nel gestire situazioni complesse. Proprio per queste ragioni può essere visto dall’organizzazione come figura stabile e affidabile, specialmente in periodi di turbolenza o incertezza. Nel corso degli anni, inoltre, può avere sviluppato una vasta rete di contatti e relazioni esterne che sono utili per il successo dell’impresa che guida. Inoltre, tende a portare avanti la tradizione familiare e la storia della società, garantendo la continuità di tutte quelle pratiche che potrebbero essere importanti per preservare l’identità e la reputazione dell’azienda. Infine, un leader anziano ha legami duraturi e stretti con i membri della famiglia (e non) coinvolti nell’impresa, il che potrebbe favorire la costruzione della fiducia e la coesione nell’ambiente aziendale».

Ma che cosa ci dicono i dati? Sono le ombre o sono le luci a prevalere?

«Le recenti analisi dell’osservatorio Aub evidenziano che negli ultimi 10 anni di osservazione (dal 2012 al 2022), indipendentemente dalle dimensioni aziendali, dall’età dell’impresa e dal settore di riferimento, l’età del leader ha avuto un impatto negativo, tanto sulla crescita del fatturato, quanto sulla redditività operativa: le imprese migliori sono quelle che sono guidate dagli under 50, le peggiori quelle consdotte dagli over 70. Inoltre, in termini dinamici, le società che hanno sostituito un leader over 70 con uno più giovane hanno visto migliorare le proprie performance. Il segnale è dunque forte e chiaro: la situazione italiana non è ottimale. La buona notizia è che, secondo i dati dell’osservatorio, pare che la crescita dell’età media dei leader stia rallentando».

Che cosa possono quindi fare le aziende familiari?

«Credo che possano agire nelle seguenti direzioni. Innanzitutto, adottare regole che pongano limiti di età all’accesso a certe posizioni di leadership. Si potrebbe, per esempio, stabilire in statuto che oltre i 70 anni non è possibile guidare un’impresa o persino sedere in consiglio d’amministrazione. Non oltre i 60 anni è opportuno avviare un processo di identificazione del successore e della sua preparazione, attraverso un lento passaggio di consegne. Si possono e si devono fare piani generici di lungo periodo e programmi specifici più di breve, ma è opportuno in qualche modo pianificare il ricambio. Negli ultimi anni di leadership da parte della persona più anziana è opportuno prevedere un periodo di co-leadership con una figura più giovane: i più recenti dati dell’Osservatorio Aub dicono che a partire dal 2020 questo modello risulta il più efficace in termini di effetti sulle performance. Invece, negli anni in cui si è ancora lontani da un passaggio di consegne, occorre favorire un ambiente di lavoro inclusivo, che valorizzi le diverse prospettive e competenze delle generazioni presenti in azienda. Ciò può avvenire attraverso programmi di mentorship dei talenti junior da parte dei senior, ma anche attraverso sistemi organizzativi, come i comitati ombra, con cui i senior possano consultare i talenti più giovani».

Nei casi di passaggio generazionale che lei ha esaminato, quale tipo di atteggiamento ha osservato all’interno del processo di trasferimento della leadership?

«In merito al passaggio di leadership, ossia il trasferimento di consegne da un amministratore delegato a un altro, innanzitutto si riscontra un’inerzia della figura della generazione precedente nell’avviare e realizzare compiutamente questo processo. Dall’altro lato, i successori che prendono il comando difficilmente tendono a stravolgere l’organizzazione dell’azienda familiare e lo constato con un po’ di rammarico, visto che il grande contributo delle nuove generazioni dovrebbe proprio essere di rigenerare l’impresa e riallinearla alle esigenze dei mercati in cui opera. Un’altra tendenza che riscontro è l’aumento dei casi di co-leadership, fenomeno menzionato in precedenza: una dinamica che valuto in modo positivo. Gli amministratori senior fanno un passo di lato, non indietro, e collaborano col nuovo leader nella gestione. Disporre di due generazioni che si uniscono nello sforzo di gestire una società porta a risultati migliori: infatti consente, da un lato, di salvaguardare l’esperienza dei predecessori e, dall’altro, di inserire le nuove energie e le nuove idee dei più giovani. È una tendenza che mi auguro si consolidi, perché mitiga i potenziali rischi del passaggio generazionale». 

Ci sono evidenze numeriche a tale proposito? 

«Sempre in base a quanto riportato dall’Osservatorio Aub, il 22% delle imprese familiari ha una leadership collegiale e un terzo circa di esse prevede una co-leadership di generazioni diverse: in altre parole è una soluzione adottata da circa il 7,5% delle società monitorate. A tale proposito citerei il caso di un’azienda in cui la co-leadership è un caso di successo: la Irsap. Il gruppo opera nel settore del riscaldamento e del condizionamento in Europa. Fondata nel 1963 da Orazio Rossi, iniziò con la produzione di radiatori per riscaldamento e negli anni ha avuto il merito di rivoluzionare il concetto di questo prodotto e farlo diventare un complemento d’arredo. In seguito, l’attività è cresciuta anche nell’ambito dei sistemi di ventilazione e nella domotica applicata al riscaldamento. Oggi l’azienda è guidata da Fabrizio e Marco Rossi (rispettivamente padre e figlio) attraverso un passaggio generazionale che è avvenuto in modo estremamente efficace: sono riusciti a creare un tandem che va molto bene e che ha permesso all’impresa di conseguire risultati significativi e di affermarsi come un’eccellenza italiana. Da una parte un padre con le competenze e le esperienze maturate nel tempo; dall’altra un figlio che rende l’impresa più contemporanea attraverso la digitalizzazione e l’internazionalizzazione».

La questione dell’età può ovviamente essere estesa anche al piano della proprietà aziendale?

«Proprietà e leadership delle imprese sono due piani legati ma distinti, anche in termini di trasferimento. Si tenga presente che la maggior parte dei passaggi generazionali prevede che la proprietà venga trasferita dopo o comunque non prima della leadership: ciò significa che il trasferimento di proprietà accade molto spesso in età troppo avanzata, se non alla morte dell’imprenditore. Avviene quindi attraverso cessioni, conferimenti, donazioni o successioni testamentarie effettuate troppo tardi, quando sono davvero concreti i rischi delle ombre dell’anzianità. Pianificare, dunque, il trasferimento non solo della leadership, ma anche della proprietà quando si è in salute e non troppo anziani può rappresentare un atto di grande responsabilità. Strumenti come il patto di famiglia lo consentono, se ci sono gli estremi per trasferire la proprietà all’interno della cerchia familiare, cioè se ci sono eredi, se sono motivati e se sono capaci di portare avanti il business. In assenza di eredi con queste caratteristiche, altrettanto responsabile è pianificare la cessione della proprietà all’esterno della famiglia, tanto con soluzioni di continuità, ossia verso manager non familiari o soci di minoranza, quanto di discontinuità, cioè verso altre imprese o fondi di private equity. La responsabilità cui mi riferisco è innanzitutto nei confronti della famiglia, che, attraverso una pianificazione effettuata in tempi ragionevoli, può mantenere la sua coesione e l’armonia, oltre che conservare il valore economico dell’impresa. Ma è anche una responsabilità nei confronti di tutti gli altri stakeholder, i cui interessi non vanno mai messi in secondo piano rispetto a quelli della famiglia proprietaria. Anche le imprese familiari sono un bene comune, che trascende le ragioni e le dinamiche delle persone e delle famiglie che le controllano».

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Responsabile Clienti Istituzionali Fondi&Sicav

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