Tanti successi e tante nuove sfide
Se si osserva l’andamento dell’industria del private banking, può valere la pena scomodare l’espressione “isola felice”. Questo segmento del wealth management in termini di raccolta netta continua, infatti, a sovraperformare il resto del mercato. Secondo i dati emersi nella ricerca “Un patto tra le generazioni, l’agenda del private banking” dell’Aipb (Associazione Italiana Private Banking) il 2023 ha mostrato una crescita del 5,3% a livello di nuova raccolta, mentre per la clientela non private è stato registrato un calo dello 0,7%. Di pari passo continua ad aumentare il grado di soddisfazione degli investitori, che nel 2023 ha toccato un nuovo record storico: l’89% ha espresso un giudizio positivo nella valutazione del servizio ricevuto. In questo segmento finanziario la progressione nel corso del tempo è stata impressionante: nel 2007, infatti, l’apprezzamento si fermava al 59%. Cinque anni dopo si registrava un incremento fino al 76% per arrivare al 79% nel 2017. Da questo quadro emerge un’industria della consulenza private che ha raggiunto la piena maturità dopo un ventennio di innegabili successi. L’Italia ha compiuto in questo ambito un salto di qualità decisamente degno di nota, con una “finanziarizzazione” e diversificazione dei portafogli della propria classe affluent che l’ha portata a essere più in linea con quanto accade nella maggior parte delle economie sviluppate.
Non sedersi sugli allori
Detto ciò, sedersi sugli allori in un momento storico come quello attuale va evitato a ogni costo. Questo variegato settore deve oggi affrontare una serie di sfide epocali per continuare ad assistere il vasto e crescente segmento di italiani con elevate disponibilità finanziarie. Alcuni problemi sono comuni a tutte le nazioni ad alto reddito, altri, invece, derivano dalle peculiarità del tessuto economico domestico.
Infatti, va ricordato innanzitutto che l’Italia è un paese molto anziano, anche per gli standard del mondo ricco. Nel 2023 l’età mediana della popolazione residente era 48,4 anni. Si tratta del valore più alto dell’Unione Europea e il secondo al mondo dietro il Giappone. La Penisola fa parte di un ristretto (ma in crescita) gruppo di realtà definite come super-aged, in cui più del 20% degli abitanti ha almeno 65 anni. Ancora una volta, con la nostra percentuale che si aggira intorno al 24%, il Belpaese si colloca sul podio globale, di nuovo dietro solamente al Sol Levante. Contemporaneamente, l’Italia presenta una struttura produttiva peculiare, caratterizzata da un vasto tessuto di piccole e medie imprese che sono alla base della potenza industriale italiana: il nostro Paese, infatti, occupa tuttora la settima posizione al mondo in ambito manifatturiero e la seconda nell’Ue. Inoltre, e qui sicuramente si arriva a un punto fondamentale, molte delle imprese che così tanto hanno contribuito a tenere a galla la nostra economia nei momenti più duri sono ancora in mano al fondatore.
Un passaggio generazionale agli albori
Il risultato di tutto ciò, però, è che dalle nostre parti, pur essendoci livelli di concentrazione di ricchezza e dei redditi nella norma, esistono sperequazioni molto forti a livello di fasce di età. Fuori di metafora, gran parte delle sostanze è detenuta dai segmenti più anziani degli italiani. I dati di Aipb sono indicativi: nel 2023, il 32% dei patrimoni gestiti dall’industria dell’asset management era in mano a persone con più di 74 anni. Un altro 23% era ascrivibile a chi si trovava nella fascia fra i 65 e i 74, mentre il 25% era posseduto dal segmento 55-64. Dopodiché, si assiste a un salto al ribasso impressionante: solo l’11% degli attivi risultava di proprietà del gruppo compreso fra i 45 e i 54, mentre chi aveva 44 anni o meno doveva accontentarsi del 9% del totale. Molto pregnante appare la correlazione quasi perfettamente negativa fra età e ricchezza totale.
In particolare, il forte dislivello a partire dal sottoinsieme dalla prima cinquantina in giù appare come la più chiara spia di un passaggio generazionale ancora quasi tutto da compiere. Anche in questo caso, i numeri raccolti da Aipb sono estremamente interessanti e, per certi versi, preoccupanti. Infatti, nel gruppo dei 65-74 anni, la vasta maggioranza di chi ha risposto, ossia il 69%, ha dichiarato di non avere ancora coinvolto i figli nella gestione del patrimonio. La percentuale scendeva al 58% nel segmento più anziano. Simili valori indicano con una certa chiarezza la forte riluttanza a passare il testimone dell’amministrazione degli asset di famiglia a discendenti ormai non solo già abbondantemente adulti, ma spesso anche già entrati nel 50% degli italiani più vecchi. Il fenomeno genera diverse sfide generali per la nostra economia e specifiche per l’industria del private banking.
Passaggio di redini quando è troppo tardi
Da una parte, infatti, il pericolo è che il passaggio di redini, specialmente nel caso di attività imprenditoriali, avvenga quando la propensione all’innovazione e alla crescita è calata. Diversi studi sottolineano che l’aspirazione a creare un proprio business è diffusa maggiormente fra i 30 e i 40 anni di età. Sarebbe dunque cruciale per un consulente finanziario riuscire a stimolare e accompagnare un coinvolgimento graduale dei discendenti nella gestione del patrimonio. Da questo punto di vista, molto deve essere ancora fatto: sempre la ricerca dell’Aipb sottolinea che, nel caso in cui la ricchezza sia stata trasferita, solo nel 23% delle situazioni il consulente che prima assisteva la famiglia è stato confermato. In pratica, i private banker italiani stanno facendo tuttora fatica a costruire un rapporto con i connazionali più giovani e a parlare il loro linguaggio. Dove ci sono problemi, però, abbondano anche le opportunità. Per capire di che cosa si sta parlando, conviene dare un’occhiata alla composizione degli investimenti degli italiani. Anche se, come si è visto, c’è stato un salto verso la modernità nelle scelte di allocazione, alcune caratteristiche, per così dire “arcaiche”, persistono.
Allargare la protezione
Infatti, su un totale di 10.900 miliardi di euro di attivi in mano ai nuclei familiari, il 53% è detenuto in immobili. Il panorama non cambia se ci limitiamo a osservare i clienti private: nel 66% dei casi si registra il possesso di una seconda o terza abitazione, mentre il 21% è proprietario anche di immobili non residenziali e il 18% di terreni agricoli o boschivi. Queste cifre, dunque, delineano il quadro di un’Italia nel quale l’economia legata alla componente industriale e rurale rimane estremamente importate. Al contempo, però, la Penisola è collocata in un mondo pieno di pericoli e di incertezze tipiche di questa fase storica. L’allargamento dei servizi, puntando in misura crescente su un concetto più ampio di protezione, può dunque costituire una chiave con cui un private banker moderno può entrare in relazione con le generazioni che oggi si apprestano ad assumere un ruolo più attivo. Da questo punto di vista, sicuramente vi è molto da fare: basti pensare, ad esempio, al fatto che l’86% degli immobili italiani è stato costruito prima del 1990 e il 25% addirittura antecedentemente al 1945. Un simile parco appare decisamente fragile; in particolare i punti interrogativi sui cambiamenti climatici appaiono preoccupanti in una realtà come la nostra, dove il 94% dei comuni è classificato come a rischio di alluvioni, frane o erosione costiera.
A ciò si aggiunge il fatto che un’ampia quota di investitori dalle elevate disponibilità è caratterizzata da forte volatilità potenziale dei propri redditi. Infatti, il 23% è classificabile come imprenditore, il 18% come libero professionista e il 17% come lavoratore autonomo di altro tipo. Va infine considerato che la speranza di vita, in Italia già fra le più elevate del pianeta, è in costante aumento, così come l’arco temporale in cui si lavora. In pratica, un quadro di instabilità potenziali in cui bisognerà lavorare sempre più a lungo con sempre meno certezze e dovendo gestire ricchezze in alcuni casi con caratteristiche molto vecchie e sottoposte a continui pericoli. Tutto ciò non è ancora propriamente percepito nei suoi contorni più nitidi. Nello specifico, l’Italia è un’economia con una modesta penetrazione dei servizi assicurativi nel ramo danni: nel 2023, sempre secondo l’Aipb, il totale dei premi pagati in questo segmento è stato di circa 300 euro pro capite. Si tratta di un valore decisamente modesto se raffrontato con i 542 euro della Spagna, i 912 della Francia e i 1.131 della Germania.