Un’opportunità fantastica
Nicola Palmarini è direttore del National Innovation Centre for Ageing, un’organizzazione leader a livello mondiale sostenuta da un investimento iniziale da parte del governo britannico e dell’Università di Newcastle «per aiutare a co-innovare, insieme ai cittadini e alle organizzazioni pubbliche e private, servizi, tecnologie e prodotti e a fornirli al mercato attraverso modelli di business innovativi, etici e sostenibili». Con queste parole, Palmarini, esperto in innovazione e longevità, introduce il progetto da lui guidato, il cui obiettivo è «creare un mondo in cui tutti noi viviamo meglio, più a lungo, prendendoci cura del pianeta e delle persone, presenti e future». Be Private lo ha incontrato per parlare della sua attività.
Perché si ha così tanta paura d’invecchiare?
«C’è, innanzitutto, un problema culturale, perché si considera l’invecchiamento come un fattore negativo e c’è una stereotipizzazione nei confronti delle persone anziane. Solo nel 1968 è stato riconosciuto l’ageismo, un pregiudizio che riguarda tutte le età, e tre anni fa le Nazioni Unite lo hanno sancito come una discriminazione, in occasione della proclamazione, da parte della stessa istituzione internazionale, del decennio dell’invecchiamento (2021-2030). Spesso essere attempati è oggetto di scherno e ciò traspare nella quotidianità delle nostre azioni: le persone vecchie sono considerate più lente, meno efficienti. Non è inusuale che su di loro vengano fatte battute inopportune nei confronti delle quali non ci si indigna, ma si ride. Una reazione profondamente diversa da quella che scaturirebbe se lo stesso avvenisse nei confronti di altre fasce della popolazione considerate oggetto di discriminazioni. Si è dinnanzi a un vero e proprio retaggio culturale che fa parte di noi e del contesto in cui siamo cresciuti, cui si aggiunge la paura per il nostro “future self”, il nostro sé futuro, che tendiamo a non immaginare sino a quando non si invecchia. Viviamo la vita senza pensare che gli anni passano e quando ciò avviene è troppo tardi per mettere in atto strategie di accettazione del nostro nuovo stato. Ovviamente, questa mancanza di consapevolezza fa sì che ci si trovi impreparati a prendere decisioni quando sono incombenti».
Ma ciò avviene perché non si pensa a pianificare il proprio futuro?
«Se ne parla tutti i giorni, ma nella quotidianità del nostro vivere ci comportiamo diversamente: cominciamo a prendere decisioni sagge per il nostro corpo e per la nostra mente solo quando ci sono danni evidenti. Non si fa prevenzione e neppure pianificazione. Questo comportamento ha le sue radici nel posticipare continuamente il pensiero di come sarà il nostro futuro, quasi fosse una cosa che non ci riguarda. Le cause sono probabilmente da ricercare nella cultura d’immagine, di cui siamo intrisi. Basta guardare i mass media o gli stessi social media dove viene costantemente reiterato lo stereotipo della gioventù, della bellezza e della forza, caratteristiche che contraddistinguono la fase iniziale della vita degli esseri umani. Credo che bisognerebbe ragionare approfonditamente su questo modo di pensare e agire, perché è un problema che riguarda tutto il mondo».
Se l’invecchiamento è visto come una discriminazione, quali sono le ricadute sulla nostra vita?
«Quando si parla di discriminazione, si è soliti pensare agli impatti individuali e sociali. In realtà, c’è una ricerca medica molto interessante della professoressa Becca Levy, che, per la prima volta, è riuscita a dimostrare che l’ageismo nei confronti delle persone anziane ha alcune ricadute sulla loro salute non solo da un punto di vista cognitivo (depressione, emarginazione), ma anche cardiovascolare: è una patologia che corrisponde a fumare quasi 15 sigarette al giorno. Si è quindi di fronte a un problema che va oltre gli aspetti prettamente sociologici. In Italia, poi, siamo anni luce lontani dall’affrontare questo argomento, tanto che non abbiamo neppure un termine per definirlo e utilizziamo la parola inglese “ageism”, coniata da uno psichiatra americano di nome Butler, cui abbiamo aggiunto la vocale “o”. Ora, se non abbiamo neppure nel nostro vocabolario un termine per descrivere questo fenomeno, come possiamo spiegarlo alle persone? Come si può fare comprendere appieno quali sono le ricadute? L’ageismo si manifesta in modo sottile e, a volte, subdolo, ma è molto più presente nella quotidianità del vivere di quanto non si possa pensare: di recente è stata pubblicata una ricerca nel Regno Unito secondo la quale più della metà dei recruiter inglesi ritiene le persone oltre i 57 anni non più impiegabili. Penso che si sia di fronte a un chiaro esempio di discriminazione in base solo all’età. È sufficiente la presunzione che non si possa portare una competenza o un qualsivoglia valore».
Ma le persone anziane non sono più considerate come figure di riferimento?
«In parte. Il fatto di avere in Italia un tessuto industriale caratterizzato de piccole e medie imprese a conduzione familiare, nelle quali l’imprenditore, di fatto, trascorre tutta la sua vita, aiuta a considerare lui e il suo valore anche in tarda età. Se guardiamo alle società quotate al Ftse Mib, vediamo bene chi c’è dietro alla maggior parte di quel successo. Credo che sia diffusa, da questo punto di vista, la figura del saggio capitano d’azienda che rappresenta la tradizione di famiglia e la cui competenza viene riconosciuta nel tempo. È facile citare Armani e i suoi 90 anni come simbolo di questo riconoscimento. L’esperienza acquisita diventa così sinonimo di capacità e di saggezza. Più in generale, accade che la persona anziana venga considerata più saggia grazie al suo vissuto, anche se alcuni studi mostrano che la saggezza non è legata necessariamente all’età, ma ha anche componenti genetiche e quindi è idealmente trasferibile tra le generazioni».
Le persone anziane sono cambiate negli anni?
«Basterebbe girare in una qualsiasi grande metropoli, che sia Milano o Tokyo, per vedere che le persone in età avanzata non solo popolano le nostre città, ma sono diverse rispetto all’idea che avevamo della vecchiaia solo qualche decennio fa. Ma non è così mutato il modo con cui queste ultime vengono viste dai più giovani. La dicotomia si reitera generazionalmente. A tutto ciò si aggiunge una narrativa che specula su questa fascia della popolazione offrendo un’immagine strumentale della realtà».
A che cosa si riferisce nello specifico?
«A una politica senza lungimiranza che usa, ad esempio, il tema delle pensioni semplicemente per conservare il bacino dei propri consensi, per guadagnare voti. La situazione demografica è tale che appare insostenibile un sistema previdenziale disegnato per cercare di permettere alle persone di uscire dal lavoro in anticipo. Abbiamo fatto una ricerca, di prossima pubblicazione, realizzata su un campione di individui abbastanza ampio da un punto di vista statistico. Tra le varie domande, abbiamo chiesto quando inizia per loro la vecchiaia. Dalle risposte sono emersi due modi di vedere questa fase della vita: la prima la fa coincidere con i dieci anni successivi della loro esistenza, mentre la seconda, ed è la più interessante, è emersa dalle persone con oltre 60 anni. Queste ultime hanno definito la vecchiaia come il momento in cui non si fanno più progetti. Si tratta di un segnale molto potente e significativo che non può essere ignorato: il lavoro è spesso alla base di una progettualità per il nostro futuro fondato non solo e non tanto per guadagnare un salario, ma per determinare qual è il nostro contributo, il nostro lascito alla società in cui viviamo».
Pensa che, se si chiedesse ai pensionati o a chi si approccia a diventare tale la disponibilità a lavorare dopo la pensione, ci sarebbe un riscontro positivo?
«Non lo so, c’è ancora troppa demagogia sul tema, ma ritengo che la fine del periodo lavorativo per come l’abbiamo inteso finora sarà visto dalle nuove generazioni in modo diverso: l’impiego, come dicevo, non è solo un’opportunità economica, ma anche senso della vita, stimolo e vitalità. Il modo di lavorare sta cambiando e muterà sempre più nel futuro e, di conseguenza, sarà differente l’approccio che verrà richiesto al singolo grazie anche all’utilizzo delle nuove tecnologie. Penso che, se fosse possibile, ci sarebbero già alcuni individui disposti a continuare il loro rapporto lavorativo, nonostante abbiano raggiunto l’età della pensione, e diverse aziende pronte ad accogliere questo loro desiderio se fossero poste nella condizione di farlo».
Si tratta di un’esperienza personale con nessuna valenza statistica, ma mi è capitato più volte di conoscere persone la cui qualità di vita peggiorava una volta raggiunta la pensione. È solo un’evidenza empirica?
«C’è la valenza dei casi di suicidio tra i giapponesi in pensione. Ma, più in generale, c’è una chiara tendenza all’aumento dei malesseri psicologici dovuti alla mancanza di progettualità di cui dicevamo e all’incapacità di dare un senso alla propria esistenza».
Come ci si pone, quindi, di fronte a una società in cui le attese di vita aumentano?
«Prima di tutto c’è un passaggio storico che deve essere accettato: la transizione dalla società dell’invecchiamento a quella della longevità. La prima è quella che abbiamo visto sino a oggi: la popolazione invecchia e ci si adatta per accogliere questo cambiamento. Tuttavia, è un approccio fallimentare, perché si tratta di accettare passivamente l’età della pensione e siamo tutti consapevoli che l’attuale sistema sociale non è sufficientemente capiente e adeguatamente finanziato per sostenere una fetta sempre più crescente di popolazione inattiva. La seconda prevede che, poiché non solo invecchiamo, ma viviamo anche più a lungo, la longevità non deve essere una destinazione, bensì un viaggio. Per fare sì che ciò sia possibile deve avvenire un cambiamento culturale che vede l’introduzione di questo tema nel corso dell’esistenza, attraverso nuovi stili di vita e modalità di relazionarsi agli altri. In sintesi, si reinterpreta la parola vecchiaia dandole un nuovo senso lungo l’intero arco della vita».
Ma non è una semplice questione di termini?
«Il linguaggio ha una sua valenza e usare un termine piuttosto che un altro ha un diverso effetto di comunicazione. Inoltre, c’è una sostanziale differenza: la vecchiaia è l’età più avanzata della vita di un individuo, mentre la longevità concerne l’allungamento delle aspettative di vita. Questo però è solo il primo passo. Il secondo presenta due aspetti: l’innovazione nella ricerca sulla biologia dell’invecchiamento e le opportunità di innovazione nei contesti comportamentali e sociali. L’innovazione biologica legata alla longevità ha conosciuto una fortissima accelerazione della ricerca e uno sviluppo per trovare i rimedi all’invecchiamento, sia per rallentarne il processo, sia per fermarlo o, in alcuni casi, per renderlo addirittura reversibile. Bisogna essere però molto cauti quando si analizza questo contesto: è un ambito nel quale vediamo crescere in maniera esponenziale gli investimenti, con un ruolo significativo, ovviamente, del comparto dell’healthcare e del farmaceutico su tutti. L’esempio più eclatante, attualmente, è la nuova cura a base di semaglutide per l’obesità che, negli Stati Uniti, è diventato un megatrend: un americano su otto usa questo farmaco e per la prima volta negli ultimi quarant’anni questa patologia è in calo nel Paese. C’è poi l’altro lato della medaglia, che è rappresentato, appunto, dagli aspetti comportamentali e sociali, sul quale ritengo vi sia un’enorme opportunità. Non c’è infatti un solo settore merceologico che non possa sviluppare innovazioni sul tema della longevità per aiutarci a vivere questo percorso di vita in modo più sano e più intelligente».
Perché affianca il mondo dell’impresa a quello del sociale?
«Perché è possibile coinvolgere i vari brand, che sono poi quelli che influenzano la nostra vita, a offrire soluzioni che possano migliorare il nostro benessere e tenerci in buona salute. Ciò si traduce in prevenzione e non parlo solo di quella medicale. Noi incontriamo decine di aziende alle quali spieghiamo che se dovessero rivolgersi a una parte di popolazione che non stanno servendo, non solo avrebbero la possibilità di aumentare la loro attività, ma anche di conquistarsi altre fasce di consumatori con un ritorno evidente non solo nei propri profitti, ma anche per la società. A loro spieghiamo che non devono disegnare “soluzioni per vecchi”, bensì modelli di innovazione per una popolazione nel proprio percorso di invecchiamento, qualsiasi sia la fase di vita nella quale si trovino. È un salto culturale che richiederà tempo, ma si cominciano a cogliere alcuni segnali di cambiamento».
Si chiede quindi alle aziende di operare una trasformazione culturale?
«Sono diversi i soggetti che fanno cultura e tra essi ci sono i diversi brand. Non riconoscere a questi ultimi tale ruolo è un grave errore di prospettiva. Sono loro che accompagnano la nostra vita e prodotti, servizi e comunicazioni nelle loro diverse e nuove forme influenzano il nostro quotidiano. Per questo motivo, c’è la necessità di aiutare le aziende a trovare la corretta narrativa per affrontare questi temi e c’è chi ha iniziato a farlo utilizzando un linguaggio e un modo di comunicare che abbraccia più generazioni contemporaneamente, lanciando messaggi che siano più corretti sul processo di invecchiamento».
I progressi tecnologici che stiamo vedendo costituiranno uno scoglio o una facilitazione per le persone anziane?
«Credo che si debba guardare con ottimismo all’evoluzione dell’intelligenza artificiale e di una sua applicazione molto tangibile come i large language model. Siamo dinnanzi a un cambiamento epocale. Innanzitutto usiamo sempre meno le interfacce tattili e preferiamo il vocale, che è diventato un elemento di interazione con una macchina. Ciò conduce a un passaggio successivo, ossia che tutto è un’interdipendenza con il linguaggio naturale: oramai viviamo di prompt che permettono a chiunque di sfruttare la tecnologia per generare servizi o prodotti. Questo passaggio fa anche sì che una persona, in qualsiasi fase di età, può continuare a svolgere un’attività o una professione, offrendo la propria esperienza, senza avere una conoscenza tecnologica approfondita. Un ingegnere, per esempio, può continuare a svolgere la propria professione impiegando le soluzioni più sofisticate perché più di chiunque altro sa quale utilizzo ne può fare e sa valutare il risultato che se ne può ottenere. L’intelligenza artificiale e i large language model sono strumenti e tocca all’essere umano sapere cogliere i vantaggi che possono offrire».
Una società che invecchia come guarda al futuro?
«Come a un’opportunità fantastica che il nostro genio ci ha portati a conquistare. E come per tutti i progressi di cui siamo stati i generatori e gli attori richiede un nuovo salto di qualità: la responsabilità di disegnarlo coerentemente con le dinamiche individuali, ambientali, sociali in cui ci troviamo. Solo così potremmo goderne, equamente, tutti».